martedì 15 marzo 2011

Democrazia e unità d'Italia


“La democrazia in Italia è in grande pericolo perché un potere abnorme unifica insieme, sotto la proprietà o la direzione politica, diversi poteri che dovrebbero restare separati: l’informazione, televisiva e su carta stampata, l’editoria, il Parlamento e l’esecutivo, con presunti tentativi di controllare anche il potere giudiziario. Quando una singola persona ha un potere così insolito da essere in grado − o lui o insieme ai suoi seguaci – di influire in maniera diretta e indiretta sui voti in Parlamento e, soprattutto, di confezionare la nostra opinione su quello che succede nel nostro paese e nel mondo, ecco allora che la nostra democrazia corre un grave pericolo.
È l’informazione che in effetti preoccupa maggiormente; e uno degli aspetti della direzione centralistica di quello che gli spettatori devono sapere o vedere è che noi abbiamo un’informazione che ci rende ignoranti di quanto succede nelle altre regioni e ci chiude nel nostro mondo cittadino, quello più vicino a noi.
Si parla di federalismo, eppure si sa sempre meno delle Regioni d’Italia (salvo quando si tratta di casi di delinquenza e corruzione), le quali sembrano vivere in un universo autarchico, separate dalle altre e dalla nazione”.
Poche parole sono bastate per caratterizzare un incontro e l’analisi dello stato della democrazia nel nostro Paese. È con Nadia Urbinati; docente di Teoria politica alla Columbia University, esperta di democrazia e pensiero liberale, che sto parlando, per fare il punto su un tema a lei molto caro: la democrazia in Italia a centocinquant’anni dalla nascita dello stato unitario.

I partiti politici, lo strumento della politica nei moderni sistemi democratici, hanno evidenziato in Italia tutte le loro debolezze e la loro crisi è più che mai la causa degli stessi pericoli per la democrazia. Cosa ne pensa?
“I partiti sono comunque importanti per un sistema democratico.
La democrazia rappresentativa è strutturata grazie ai partiti, associazioni politiche che appartengono alla sfera della società civile o di diritto privato, ma che hanno una funzione pubblica, perché convogliano le idee che i cittadini sviluppano nella loro vita associativa, selezionano la classe dirigente, contribuiscono a creare l’agenda su cui poi lavorano politici, parlamenti, governi, infine uniscono.
È un mondo del quale la democrazia non diretta ha bisogno. È un errore pensare che la presenza dei partiti sia una fase transitoria, o un capitolo della storia del governo rappresentativo.
Dalla Rivoluzione francese, dal tempo della prima democrazia costituzionale, da quando si sono svolte le elezioni per eleggere i rappresentanti, ci sono i partiti e questo perché il sistema democratico elettorale è fondato sulla rappresentanza delle idee, non soltanto sulla selezione della classe dirigente. I partiti sono essenziali per una democrazia, nonostante abbiano o possano avere caratteri oligarchici, e spesso siano restii al rinnovamento delle loro élite; ma i difetti dei partiti non devono giustificare la conclusione che sarebbe meglio non averli.
I partiti italiani oggi versano in una profonda crisi di valori e d’identità.
Le ragioni sono molteplici e legate alla storia nazionale del paese, a come si è sviluppata la nostra democrazia; a questo si deve aggiungere che questa nostra crisi è parte e segno di una crisi più generalizzata che tutte le democrazie occidentali attraversano, benché con diversi livelli di gravità.
La fine della Guerra fredda è stata anche per noi la fine di un regime.
Un regime che ha conquistato stabilità anche grazie al fatto che per ragioni internazionali in Italia è valsa la logica di una conventio ad excludendum, per cui una parte politica è stata messa nella condizione di non formare alleanze di governo. Questo ha determinato per decenni l’impossibilità del ricambio della maggioranza politica, e questo ha agevolato lo stato d’impunità, ha compromesso l’azione deterrente che le elezioni svolgono. E infine, la nostra uscita dalla Guerra fredda è avvenuta non per vie politiche ma giudiziarie.
La politica non ha partecipato alla rinascita, non ha preso parte alla sua stessa rigenerazione.
I partiti sono stati puniti, non si sono però auto-puniti; essi hanno subito ‘Mani pulite’ ma è difficile dire che abbiamo elaborato una loro etica delle mani pulite.
Oggi, in Italia, i partiti sono: o una vera e propria azienda di proprietà di qualcuno, oppure partiti uniti da un leader, ossia sono il partito ‘di….’, ‘di qualcuno’: di Bossi, di Casini, di Di Pietro.
Questo fenomeno di personalizzazione iniziato con Berlusconi, questa trasformazione berlusconiana dei partiti ha portato a identificare il partito con il nome del suo fondatore o con colui che lo rappresenta maggiormente.
La figura del leader, fondatore, ispiratore è il centro del partito e la sua organizzazione ha una struttura di potere fortemente piramidale.
Non essendoci più un’idea forte, un’ideologia intorno alla quale molti cittadini si riunivano e si identificavano (come per esempio è successo per la Democrazia cristiana, il Partito comunista e, prima di Bettino Craxi, il Partito socialista), oggi la forma di organizzazione avviene in altro modo, demagogico più che liberal-democratico; un modo personalistico”.

Come ritrovare partecipazione, coinvolgimento, possibilità politica della gente di scegliere i propri rappresentanti, i propri leader, di esercitare un controllo sul lavoro dei propri rappresentanti, di decidere o essere coinvolta nelle scelte di linea politica? Le “primarie” possono rappresentare una possibilità?
“Ho qualche dubbio riguardo alla democraticità delle primarie: a volte sono manipolate, altre volte sono fittizie. E poi non è che siamo più democratici se si va a votare più spesso e lo siamo meno se ci si va di rado.
Né è detto che siano un segno di partecipazione, a meno che per partecipazione non si intenda l’andare al seggio.
Le primarie sono elezioni interne ai partiti, per scegliere il candidato che dovrà competere contro un candidato rivale, ma se devono essere ‘vere’, allora le segreterie e le dirigenze non devono schierarsi con l’uno o con l’altro candidato o far sì che il partito si mobiliti per un candidato: in tal caso le primarie sono davvero una beffa.
Ci si deve predisporre a che le primarie possano anche dividere, non solo unire; e tuttavia, devono dividere solo provvisoriamente, ma questo non è semplice da apprendere in un paese nel quale la stessa alternanza di governo è stata un problema per decenni, e nel quale il pluralismo e il dissenso non sono bene accetti.
Quindi di vere primarie ce ne sono state poche finora, e quando sono state non fittizie sono state spesso contro il candidato imposto dalla dirigenza del partito”.

Il progetto di creare un sistema politico bipolare è fallito completamente oppure può ancora essere una possibile soluzione ai problemi politici del paese?
“C’è stato un momento in cui si è tentato di creare un sistema bipolare che potesse realizzare una vera alternanza di potere e di governo.
Il paese storicamente ha avuto un periodo breve di bipolarismo o meglio di alternanza, dopo ‘Tangetopoli’, dopo il 1992, con i governi Prodi-Berlusconi-Prodi-Berlusconi.
Un periodo di quasi normalità di alternanza di maggioranze, che poi si è bloccato.
La storia politica del nostro paese, a partire dall’unità d’Italia, sembra esprimere una vocazione monopartitica: o larghe coalizioni di maggioranza o un partito unico, come se l’alternanza, quindi il conflitto, non fosse ben digerito; il pluralismo viene, sembra, confuso con il frazionismo.
È stato sempre difficile accettare l’idea di avere un antagonista che poi è anche parte del sistema costituzionale e per questo non nemico assoluto. La politica nazionale sembra abbia sempre cercato di eliminare il conflitto.
Eppure è bene ribadire che le minoranze determinano una solida opposizione quando possono in prospettiva pensarsi come futura e alternativa maggioranza”.

Quanto è determinante la scelta di un sistema elettorale affinché si stabiliscano dinamiche di sana democrazia rappresentativa? Il nostro paese, anche alla luce della sua storia, della sua peculiarità sociale e culturale ha vocazione politica proporzionale (Prima repubblica) oppure maggioritaria o mista (Seconda repubblica)?
“Durante il periodo democratico, seguito alla proclamazione della Repubblica, abbiamo avuto un meccanismo di alleanze costruito sul sistema proporzionale che, anche se con un forte veto internazionale, ha determinando un certo equilibrio. Non è detto che da un sistema proporzionale non possa nascere stabilità.
La Germania, per esempio, ha un sistema proporzionale ed è un paese fortemente stabile. L’instabilità non è necessariamente o solamente legata al sistema elettorale.
Credo che il sistema proporzionale sia quello che meglio si concilia con un sistema democratico costituzionale. Non necessariamente un sistema proporzionale puro, ma per esempio con una soglia di sbarramento.
Comunque sia, in qualche luogo del sistema politico ci deve essere un momento nel quale la proporzionalità è rispettata, o prima delle elezioni, all’interno dei partiti, attraverso le procedure di costruzione delle candidature, delle liste elettorali, oppure dopo le elezioni e quindi dentro il Parlamento.
Il nostro sistema costituzionale è organizzato in modo tale che ci sia frantumazione delle maggioranze ovvero proporzionalità, che il Parlamento non sia fortemente maggioritario.
I padri costituenti hanno voluto frantumare il potere del Parlamento attraverso il sistema proporzionale in modo tale che in questo spazio di potere centrale nessuno potesse avere una maggioranza schiacciante, che la funzione di governare non avvenisse con una maggioranza granitica.
Oggi questo si è sbilanciato o meglio è venuto a cadere; ecco perché occorrerebbe rivedere alcuni elementi di ingegneria costituzionale e di riorganizzazione della rappresentanza.
In questi anni ci siamo accorti che un Parlamento che ha una maggioranza forte, e in più una maggioranza espressa dai partiti o meglio dal capo dell’esecutivo, non ha contrappesi.
Il nostro sistema parlamentare funzionava bene quando il governo era fondato su un sistema di alleanze di coalizione (democristiani, repubblicani, socialdemocratici, socialisti, ecc…) poiché c’erano in questo modo veti interni, e perció limiti al potere del partito di maggioranza. Oggi, poi, è marcata l’impossibilità di scelta dei candidati, visto che tutto viene deciso nelle segreterie dei partiti.
C’è molta più invisibilità nell’organizzazione della democrazia dei partiti di quanto non ce ne fosse nel passato.

Un maestro della democrazia moderna ha scritto: “il popolo (inglese) crede di essere libero, ma si sbaglia di grosso. Lo è soltanto durante l’elezione dei membri del Parlamento; appena questi sono eletti, ridiventa schiavo, non è più niente” (J.J. Rousseau Il contratto sociale). J.S. Mill stesso descriveva gli elettori “realmente sovrani” nel momento delle elezioni, ma poi evidenziava che sono e restano totalmente diseguali nella società, con diversissime capacità di influenzare, dirigere o rendersi protagonisti dei processi decisionali.
È proprio così? E se è proprio così come ristabilire una legittimazione dal basso del potere e della sovranità del popolo?
“Un sistema elettorale genera organizzazione dei cittadini in gruppi.
Ma non pensiamo che nelle democrazie dirette del passato l’assenza dei partiti denotasse più partecipazione dei cittadini, poiché sappiamo che erano i grandi oratori o i loro sostituti a influire sul voto dell’assemblea, mentre la maggior parte dei cittadini restava passiva.
La democrazia rappresentativa ha due poteri: è una diarchia, non una mono-archia. Non si fonda soltanto sulla ‘volontà’ popolare (voto), ma anche sul ‘giudizio’, sull’opinione.
La volontà è attuabile con il voto, è il decidere.
Il giudizio è un potere che non produce effetti diretti come la volontà, ma opera per azione indiretta, come influenza, o come censura.
Il giudizio può avere anche un potere negativo.
Applichiamo questa teoria al nostro paese.
Il diritto di voto è ormai stabile e non sembra che corra grandi problemi.
Del resto, oggi per decurtare la democrazia della sua funzione di controllo non è al voto che bisogna guardare ma al giudizio.
È più importante controllare l’opinione.
Far sì che l’opinione diventi un potere mite e non critico.
È sul fronte del giudizio, della formazione dell’opinione, che sorgono oggi i problemi alla democrazia, non dal versante del diritto di voto.
Il sistema costituzionale liberale si è sviluppato rompendo il monopolio e creando controlli e contrappesi: dal sovrano uno di Hobbes e Bodin, al sovrano complesso di James Madison.
Occorrerebbe applicare lo stesso principio della divisione, della separazione, al giudizio.
Ossia occorrerebbe dividere le proprietà dei mezzi di comunicazione, rompere il monopolio e pattugliare il pluralismo del mondo dell’informazione.
È da questo monopolio che nascono gran parte dei problemi per la nostra democrazia.

Il clientelismo, la corruzione, l’affarismo, la morte dei valori fondanti la comunità, l’inefficienza e la burocrazia a tutti i livelli, la debolezza dell’economia, quanto le cose che non vanno sono riconducibili alla mancanza di moralità nella vita pubblica e alla diffusa estrema debolezza del senso civico, di senso dello stato, di senso della collettività degli italiani e quanto invece alla necessità di un progetto politico di ammodernamento e democratizzazione delle strutture di organizzazione del potere e delle istituzioni?
È prioritaria più una rivoluzione dei costumi (la speranza e poi illusione dell’era di “Tangentopoli”), o un nuovo progetto politico?
“Noi dobbiamo partire dalla considerazione che gli esseri umani sono fallibili e che le leggi fondamentali, le costituzioni, sono state ideate a partire dall’idea che gli uomini sono più cattivi che buoni, poiché diversamente non avremmo bisogno di costituzioni. Rousseau, Machiavelli, Madison, i grandi studiosi e fondatori di stati costituzionali ci dicono questo: occorre procedere da come sono gli uomini, dai loro difetti e potenzialità di fare errori, ma anche di correggerli e quindi perfezionarsi.
È perfettamente inutile pontificare e fare in continuazione la reprimenda sull’immoralità pubblica. Il lamento perenne è quanto di più inutile e fastidioso.
Occorrerebbe invece che le istituzioni e le leggi fossero organizzate in modo tale da ‘trasformare la motivazione al vizio in condizione per la virtù’. L’attuale nostro governo è micidiale per il nostro sistema proprio perché sovverte questa norma etico-politica.
Per esempio ha cambiato le regole degli appalti in modo tale che non ci sia più nemmeno lo stimolo a volere cercare riscontro sulla limpidezza legale della ditta esecutrice dei lavori.
I grandi appalti, i grandi eventi, le emergenze, la protezione civile: tutti modi per facilitare coloro che sono inclini al raggiro nella loro azione illecita.
Le norme, le regole dovrebbero essere pensate per rendere il raggiro più difficile; ma da noi pare che tutto vada a rovescio.
Un sistema che produce disonestà provoca la trasformazione degli onesti in disonesti, pena la sconfitta.
Ma il sistema economico di mercato è e deve essere fondato sul trust, la fiducia, una moralità implicita nelle azioni volte a perseguire l’interesse economico, altrimenti saltano le regole basilari e viene falsata la competizione, per cui vincono i malfattori non i migliori.
Di fronte a questa sistematico stravolgimento dello stato di diritto il lamento sulla ‘quesione morale’ è semplicemente inutile; bisogna invece reagire”.

Cosa ne pensa della necessità di riformare la nostra Costituzione?
Oppure crede che il disegno dell’organizzazione dello stato tracciato dalla Legge fondamentale del paese e i valori, da essa richiamati, su cui si basa la nostra comunità civile siano ancora validi?
Quando Dossetti costituì i Comitati in difesa della Costituzione, non pensava minimamente che la Costituzione fosse intoccabile, del resto essa stessa prevede norme per la sua modifica.
Li costituì quando si rese conto, e questo è anche il problema di oggi, che un gruppo di politici usava la Costituzione come arma di scambio nella lotta politica quotidiana e ordinaria.
La Costituzione è fuori dagli scambi politici perché è la condizione affinché essi avvengano civilmente; é questo che occorre difendere, non la sua immutabilità.
Certo che si può cambiare la Costituzione, ma è intollerabile che alcuni politici o partiti pensino di poterla cambiare per poter fare meglio i loro interessi.
Oggi non si vuole cambiare la Costituzione per renderla più funzionale alla nostra democrazia.
Se si vuole fare un discorso onesto politicamente e intellettualmente, si deve dire che la prima riforma necessaria per la nostra democrazia è quella del sistema elettorale, non quella costituzionale.

© AF, luglio 2010




L’informazione ci separa

Nel corso del nostro incontro, la prof.ssa Urbinati ha posto in termini originali un problema molto discusso, quello della relazione tra potere, informazione e senso di cittadinanza. Riporto qui integralmente il suo ragionamento.

Con questa profusione di tecnologia informatica, oggi tutte le informazioni che riceviamo dal mondo esterno si concentrano sullo spazio che è a noi più prossimo: il proprio quartiere, al massimo la propria città, tanto che spesso anche la propria regione pare un fatto lontano. L’informazione non ci unisce, ci separa. John Stuart Mill diceva che la democrazia contemporanea avrebbe risolto il problema della vastità dello spazio dello stato-nazione ricreando una nuova agorà attraverso due strumenti: i trasporti e la stampa. Due strumenti che mettevano in comunicazione una cittadinanza dispersa, risolvendo il problema della distanza. Conoscere ciò che succede in una regione lontana del paese poteva dare l’impressione di essere vicini, in dialogo.
La stampa e i media dovrebbero unirci come in una grande agorà, ma in realtà ci chiudono nel nostro piccolo mondo quotidiano degli amici, dei parenti, del quartiere, dell’associazione alla quale apparteniamo – di ciò che sta fuori non sappiamo quasi  nulla.
Questo è un fenomeno di frantumazione dell’unità di cittadinanza, della polis. Questo genera il senso di impotenza, mentre ci rende passivi. Si aggiunga a questo la debolezza dei partiti nazionali, e della stessa idea di “un noi” come demos, di un sentimento di solidarietà che ci faccia sentire parte della stessa comunità politica.
Sull’incontro con gli altri, per via di informazione e di cultura, Kant aveva pronosticato che si sarebbe potuto costruire un senso di simpatia tra individui che abitavano in territori distanti tra loro: basterà che arrivi anche solo l’eco di un evento che succede lontanissimo da me per farmi sentire partecipe e quindi far mobilitare la mia opinione, far sentire la mia voce.
Se si rende impossibile che si abbia questo eco e io non so niente di quello che succede lontano da me, allora non mi sento più coinvolto o simpateticamente legato a nessuno se non a chi mi è fisicamente vicino. La frammentazione genera solitudine e impotenza, una strategia che, diceva Aristotele serve al potere centrale per crescere incontrollato.

© AF, luglio 2010

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