mercoledì 23 giugno 2010

Democrazia che non c'è


Il sindacato odierno manca di democrazia interna: nella scelta degli uomini come nell’elaborazione delle linee di azione. Questa scarsa permeabilità tra dirigenza e base mette in dubbio la sua stessa sopravvivenza sociale e il suo valore etico e di azione sindacale.

All’origine il sindacato è essenzialmente una piccola democrazia. È basato sull’uguaglianza dei membri e quindi sull’uguaglianza delle responsabilità e delle possibilità. Le cariche sono conferite mediante elezione e le decisioni sono soggette all’approvazione degli iscritti. Le elezioni sono regolari, le riunioni frequenti e i dibattiti aperti e liberi. Si è sempre proposto con una forte carica etica e le sue rivendicazioni non sono mai state giustificate solo da un interesse specifico o economico, ma a partire da una richiesta di giustizia sociale.
Dagli indubbi meriti storici, a salvaguardia e costruzione della democrazia nel nostro paese, di impegno per il riscatto sociale ed economico di masse di lavoratori ai margini della società, in lotta per affermare nelle aziende condizioni a tutela della dignità umana e professionale del lavoratore, si è però trasformato – nell’arco del tempo − in un corpo burocratico e autoritario, con ben poche possibilità di libero dissenso, di partecipazione alle scelte di politica sindacale e di crescita di responsabilità.
È degenerato il suo valore rappresentativo e di soggetto capace di carica morale e di forza di trasformazione e di innovazione sociale. Si è annullato il suo ideale e la sua realtà di democrazia interna e di libero dibattito tanto da divenire esso stesso “sistema” e le sue oligarchie “l’altra casta”. Un degrado sempre più accentuato che si è sviluppato ed è cresciuto in parallelo a quello dei partiti politici.

Democrazia sindacale significa: rispetto delle regole, ricerca del consenso, protezione e valorizzazione dell’altro, rispetto delle minoranze, capacità di coinvolgere e dare voce agli interessi e alle opinioni di tutti, certezza nei processi decisionali e nelle modalità di esercizio del potere. Democrazia sindacale significa: partecipazione ampia alle decisioni di azioni e alle loro elaborazioni precedenti e intervento effettivo nella designazione dei responsabili, ma tutto questo è oramai una chimera dei tempi lontani.
Ma gli stessi strumenti di tutela e garanzia minima di democrazia interna e di sano confronto, nel tempo sono divenuti riti celebrativi vuoti di significato e di contenuto deliberativo e democratico. Il momento del congresso, che in tante occasioni ha significato: svolte, revisioni, cambiamenti, espressione e spazio reale di democrazia delle organizzazioni sindacali, negli ultimi anni ha subito un sostanziale impoverimento, tanto che oggi è diventato più una grande assemblea da esibire per i media e i rapporti con le altre organizzazioni e istituzioni esterne che luogo di confronto e di decisione.
Il margine di rischio per le linee politiche e sindacali e soprattutto per le classi dirigenti è pressoché annullato. Rimane la segretezza del voto anche se a volte è sostituita da un processo per acclamazione, ma è cancellata la possibilità di esprimersi su tre, quattro o almeno due schieramenti in contrapposizione dialettica. Tutto è giocato su un candidato unico alla segreteria o su una lista − bloccata e decisa in segrete stanze − di canditati per l’assemblea o il consiglio, che rispetta in maniera certosina gli equilibri di forza fra le diverse categorie. Naturalmente, una pianificazione capillare e quasi perfetta dei voti permette di sancire o al più correggere i processi di cooptazione della lista di candidati. Gli stessi orientamenti di politica sindacale vengono così determinati più attraverso l’elezione di persone che dalla votazione di mozioni, quest’ultime spesso molto generali e poco vincolanti.
Ecco allora che gli organismi dirigenti, molto spesso, non sono affatto luoghi di confronto e di elaborazione delle strategie, ma il momento finale di un processo decisionale che si svolge altrove.

La cooptazione, altro male endemico, attraversa tutto il corpo delle organizzazioni sindacali: dall’attivista volontario al quadro professionista. La cooptazione si determina quando un organismo collegiale o meglio un’élite di potere provvede da sé a scegliere i singoli individui − certamente sganciati da ogni logica di misurazione della loro rappresentatività − che ne fanno parte. Si scelgono lavoratori da avviare alla carriera sindacale a tempo pieno ed è poi la carriera a fornire le competenze ritenute necessarie per raggiungere i gradi superiori dell’organizzazione. L’area in cui si scelgono i nuovi dirigenti è mantenuta “saggiamente” ristretta. In tal modo si perpetua una scarsa diffusione delle competenze necessarie e parallelamente la formazione viene mantenuta a livelli inadeguati. Questo metodo di selezione della classe dirigente è funzionale all’auto-riproduzione delle élite e a proteggere la continuità dei gruppi di comando, creando condizioni di dipendenza e di fedeltà alla linea e alle scelte dei designanti. Tutto il contrario di un sistema democratico.
Anche da queste storture discende l’eterna stabilità dei gruppi dirigenti sindacali, forse in assoluto la più longeva e statica, fra tutte le organizzazioni di rappresentanza sociale e politica del nostro paese.
Ma un’organizzazione sociale senza ricambio nelle sue classi dirigenti è un’organizzazione che tradisce il suo statuto fondante e la sua natura di rappresentanza. Diventa inevitabilmente un’organizzazione senza energia, senza vigore e senza capacità di essere all’altezza dei compiti sempre nuovi ai quali è chiamata. In democrazia si governa e si viene governati a turno, altrimenti è monopolio del potere da parte dei gruppi dominanti e quindi oligarchia o tirannide.

Occorre avere il coraggio e l’onestà di stabilire regole certe e verificabili, anche da autorità super partes, che determinino ostacoli alla perpetuazione del comando stabilendo una rotazione delle cariche e delle responsabilità e un limite all’indefinita rieleggibilità di chiunque. Occorre, inoltre, ampliare l’area dei dirigenti sindacali, sia per favorirne la sostituzione, sia per ottenere un decentramento dei poteri decisionali. Una capacità dirigente più diffusa nella base e nei quadri intermedi faciliterebbe la crescita critica e propositiva degli iscritti e l’esercizio reale della collegialità in opposizione alle gerarchie sindacali.
Poche sono le possibilità di reazione della base alla dicotomia tra una retorica della democrazia, comunque sempre declamata, e l’azione centralistica e antidemocratica delle élite sindacali. Si ha la sensazione, ma spesso diventa certezza, che gli impulsi critici e le ragioni profonde di ogni auspicabile dissenso vengano messi a tacere facilmente sia all’interno dell’organizzazione, attraverso forme ricattatorie basate sugli interessi a cascata o sui piccoli privilegi acquisiti, e sia per quanto riguarda gli iscritti, attraverso il controllo dei tempi delle operazioni, la manipolazione della comunicazione e il controllo ferreo delle informazioni e degli spazi decisionali.
La degenerazione dei costumi e dei valori etici e democratici delle origini ha così determinato un impoverimento generale del sindacato sia in termini di idee, sia di idealità e di capacità di rappresentanza. Il riscatto non può che partire dall’interno delle organizzazioni sindacali, che devono avere il coraggio e la forza di porre al centro di un dibattito serrato la reale democrazia interna, considerandola discriminante rispetto alla loro vocazione di tutela del mondo del lavoro e rispetto al loro stesso destino, alla loro sopravvivenza sociale.

Questa analisi di un sistema bloccato è da tempo condivisa da studiosi e dirigenti sindacali, ma il degrado e la degenerazione complessiva evidenziano una sempre maggior necessità di aprirsi a ipotesi alternative. La “cura” stessa e le proposte sono diffuse e rimarcate anche se ancora poco applicate, almeno dall’alto delle oligarchie le quali agiscono per certi versi inevitabili resistenze e difese.
Un’altra grande contraddizione è riferita all’articolo 39 della Costituzione, rimasto nel libro dei desideri dei nostri padri costituenti anche per l’accanita resistenza dei sindacati stessi. I contratti collettivi di lavoro hanno efficacia obbligatoria verso tutti gli appartenenti alle categorie a cui si riferiscono, che siano o meno iscritti al sindacato, purché vengano stipulati da sindacati registrati. La registrazione, a sua volta è subordinata alla condizione vincolante che gli statuti sindacali sanciscano un ordinamento interno a base democratica. I contratti collettivi hanno sempre avuto efficacia per la totalità dei lavoratori e questo grazie a un’acrobazia interpretativa − avallata dalla giurisprudenza – che pare tradire e deformare lo spirito e le indicazioni della Costituzione, perché mai sono state stabilite regole e controlli sulla vita sindacale e accertata la sua democraticità. Anche se a tutt’oggi se ne parla poco, una legge che regolamenti un obbligo democratico delle organizzazioni sindacali credo che sia sempre più urgente e necessaria.
Del resto le regole e le leggi, seppur importanti, non bastano; occorre un humus culturale di valori condivisi e un clima etico che bandisca l’individualismo e la mercificazione degli spazi di rappresentanza e che rimetta al centro il valore e l’impegno di un servizio per la collettività fatto di onestà, passione e profonda responsabilità sociale. Troppo spesso i valori fondanti della nostra società e della nostra cultura e civiltà sono traditi da quanti operano nelle istituzioni, nei partiti, nei sindacati, nelle associazioni imprenditoriali, ma anche nelle università, nella sanità e nella pubblica amministrazione, mentre al contrario dovrebbero custodirli e proteggerli, anteponendo al proprio interesse personale il bene pubblico.

© AF, ottobre 2009

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