martedì 23 giugno 2009

Seconda Repubblica, quale cambiamento?


Tavola rotonda con Gianfranco Pasquino, Paolo Pombeni e Luigi Pedrazzi
coordinata da Antonino Frusone, Maria Gervasio e Massimo Ariati

Forse anche a causa della crisi dei valori e dei grandi ideali politici, si manifesta sempre più la tendenza alla parcellizzazione degli interessi, alla frantumazione della società in mille bisogni particolari e sempre più ci si affida a forme di aggregazione che garantiscono se stessi e i propri interessi a scapito a volte del bene comune. È nostro intento cercare di capire come due elementi quali: “patto sociale” e “corporativismo” si coniugano e si esprimono nell'Italia contemporanea, quali continuità e quali cambiamenti si possono trovare tra la Prima e la Seconda Repubblica.

Luigi Pedrazzi. Non so se riesco a rispondere alla vostra domanda. “corporativismo” e “patto sociale”, nel nostro tempo (in altre epoche il discorso sarebbe più complesso), indicano due tendenze diverse: il primo termine esprime la spinta all'autotutela e all'affermazione di sé propria di gruppi professionali, anche ristretti, ma in grado di spuntare privilegi retributivi e organizzativi per la possibilità di nuocere a molti con le proprie agitazioni e rivendicazioni particolari; il secondo termine, all'opposto, indica un accordo molto largo per un equilibrio di redditi e di norme che coinvolga, se non tutta, gran parte della popolazione. Respingo la distinzione Prima e Seconda Repubblica. Di Repubblica italiana ce n'è una sola, sia pure con fasi differenziate. In quella che si è chiusa con tangentopoli “patto” e “neocorporativismo” hanno convissuto a lungo e si sono bilanciati, poi ha prevalso l'autotutela più spregiudicata dei gruppi più forti. Purtroppo la fase politica attuale non ci ha ancora messo al riparo da questa tendenza ce alla lunga è stata devastante e destabilizzante. Non vedo negli equilibri politici attuali le condizioni per una seria “politica di redditi” e per un patto sociale stabile e largo. Il travaglio politico continuerà e si accrescerà.

Gianfranco Pasquino. Ho dei dubbi sul fatto che si possa parlare di “patto sociale” e “di neo-corporativismo” - che comunque terrei distinti tra di loro - negli anni 70. Ci sono stati alcuni accordi che possiamo in qualche modo ricondurre alla categoria del corporativismo, ma forzandola però, perché dal punto di vista scientifico la categoria del neo-corporativismo richiede che gli accordi siano fatti tra sindacati ed imprenditori sotto il controllo o la supervisione di un Governo. Non abbiamo avuto nulla di questo negli anni 70 né negli anni '80. Credo anche che sarebbe difficile definire il “patto sociale” in termini tecnici, a meno che non lo definiamo come una serie di accordi che intercorrono tra un Governo di coalizione e settori di sindacati e con l'accettazione più o meno ampia ed esplicita da parte degli industriali. Questi invece hanno sempre avuto molte riserve sulle politiche fatte dai governi anche a loro vicini. Penso che qualcosa sia cambiato già negli anni '80 e che adesso ne stiamo raccogliendo i frutti in larga misura velenosi. Si tenta di trovare nuove forme di rappresentanza e soprattutto di governo. Negli anni '70 e '80 gli interessi sono stati rappresentati molto male, alcuni si autorappresentavano - erano cresciuti come capacità di ricatto e spesso non si poteva agire senza trattare con quegli interessi - altri si rappresentavano attraverso i partiti di governo, altri infine non avevano rappresentanza, mentre sono anni di emarginazione per alcuni interessi significativi. Ma come si rappresentano oggi gli interessi? Questa società è corporativa ma anche pluralista, ha prodotto più interessi, ha frammentato alcune delle grandi organizzazioni di interessi. Assistiamo ad una grande ripresa dei sindacati, ma sarebbero così forti se fra gli iscritti non avessero i pensionati? Rappresentano anche gli interessi degli occupati e dei disoccupati? I sindacati sono frammentati e nelle piccole vertenze i sindacati autonomi sono forti, in grado di bloccare il funzionamento del sistema ferroviario e del sistema scolastico.
Occorre prima discutere dell'organizzazione della rappresentanza degli interessi dopo di che possiamo discutere di come si governa una rappresentanza di interessi. Non accetto che così spesso il Parlamento debba recepire gli accordi che di fatto vengono presi tra il Governo e le organizzazioni che rappresentano gli interessi come i sindacati. In questo modo infatti il Parlamento viene espropriato; non sono espropriati i parlamentari bensì i cittadini che richiedono una rappresentanza generale e non una rappresentanza di interessi particolaristici.

In questa fase storica del Paese possiamo parlare di Seconda Repubblica?

Pedrazzi. Secondo me di Repubblica ce n'è una sola, siamo tuttora dentro la nostra Repubblica italiana del '48, nella crisi politica dei partiti che per mezzo secolo hanno segnato gli equilibri politici.

Pasquino. Sono restio a pensare che abbiamo vissuto in una I Repubblica e contrariamente a Pedrazzi sono convinto che sia morta e che non possa essere resuscitata, anche se è sicuro che non c'è una II Repubblica.

Oggi si sono proposti direttamente alla guida del Paese quei gruppi di pressione che prima per affermare i propri interessi agivano sul Parlamento e sul Governo. Pro­babilmente hanno creduto di potersi sostituire al potere politico, alla mediazione che il potere politico esercitava fra i gruppi di interesse. Questo si rispecchia nello stato dell'informazione che oggi appare funzionale agli interessi di questo potere. È una informazione che nella sua apparente ricchezza e molteplicità di prospettive non ci permette di stabilire l'esatta concatenazione dei fatti. Un esempio è proprio l'elezione di Berlusconi a capo del Governo, per molti una mera operazione di marketing. C'è stato uno sconvolgimento della politica nell'accezione nobile di dibattito, confronto di idee e di valori? C'è posto ancora per la politica, per il dibattito, per le idee oppure questo tipo di informazione ci condiziona e ci fa vedere le cose sotto una luce diversa?

Pasquino.  C'è una famosa frase di Jefferson che dice: ad una situazione in cui ci sia Governo e non ci siano giornali liberi preferisco quella in cui ci siano giornali liberi ma non ci sia Governo. Penso che sia sbagliato pensare che siamo manipolati dall'informazione. L'elettorato che ha votato Berlusconi era potenzialmente più conservatore che progressista e l'operazione di marketing consiste nella visibilità del personaggio Silvio Berlusconi che poco attiene alle sue televisioni. Ad esempio il Milan è una grande squadra, ci sono 25, 30 milioni di persone che guardano il calcio e che quindi sono immediatamente esposte a questa visibilità. Il punto cruciale è questo: se si parla dell'informazione bisogna guardare a tutta l'informazione, bisogna fare un discorso più approfondito sul livello di informazione dei cittadini. Bisogna tener conto del fatto che l'informazione non è solo televisione o giornali, ma anche quello che uno recepisce andando in giro, al bar, al lavoro, dall'amico prete, dall'amico sindacalista, c'è tanta gente che fa informazione ogni giorno. Quelli che non sono esposti a queste fonti forse si fanno convincere dal marketing. Fra l'altro il marketing bisogna saperlo fare e occorre anche avere il prodotto adatto. Credo poi che la vittoria di Berlusconi sia quella di un grande gruppo finanziario-commerciale più che di un gruppo di interessi. È vero, Berlusconi non poteva più farsi rappresentare al Parlamento dai socialisti e da parte dei democristiani, così ha deciso di scendere in campo per conto suo. Questo però riguarda la Fininvest perché ci sono anche altri gruppi, molto diversi fra loro, che non hanno rappresentanza. Non so se i gruppi di pressione siano al Governo, so che alcuni hanno una presenza, ma la maggior parte di loro ha un problema reale: non è chiaro chi contratta che cosa e chi mantiene quello che contratta. Questo crea una situazione di disorientamento. La I Repubblica garantiva dei canali di accesso, chi era avvantaggiato lucrava di più e chi era svantaggiato lucrava alcune risorse marginali. La situazione attuale è una situazione di movimento ed è normale perché siamo in un momento di transizione. Anzi sarebbe gravissimo se si irrigidisse, la forza dei gruppi è di non identificarsi mai del tutto con gli uni o gli altri.

Pedrazzi. Io non sono d'accordo che l'operazione Berlusconi sia una operazione di marketing, è stata una vera e forte operazione politica. Nelle partite ci sono sempre due squadre: quella che vince avrà anche più fortuna, ma ha giocato meglio di quella sconfitta. Il limite dell'operazione Berlusconi, ora già lo si vede, è stato di credere che dopo la vittoria tutto sarebbe stato facile. Non è così. Se non si vince con un processo serio di rappresentanza e con idee chiare si hanno sempre guai successivi. Per Berlusconi è stato così.
Nell'ambito dei suoi guai Fininvest e nella percezione che il sistema elettorale era cambiato è riuscito a mettere d'accordo il voto leghista del Nord e quello missino del Sud, garantendo con il suo prestigio personale, con le sue reti, un forte asse centrale. Grazie anche a Tangentopoli i partiti tradizionali di governo erano praticamente scomparsi, ma c'era una massa di elettorato che non era cambiata moralmente né politicamente ed era alla ricerca di una rappresentanza diversa, l'offerta di Berlusconi risultava interessante per il suo anticomunismo. Ha inventato che stava per vincere la sinistra, per mettere insieme i due elettorati, quello missino e quello leghista. “Al dopo ci pensiamo” sembra aver detto Berlusconi, “intanto andiamo al potere e ce lo dividiamo”. Quello che emerge ora è la mancanza di cultura politica costituzionale seria da parte dei vincitori, i quali però in effetti hanno avuto più fantasia ed aderenza ai dati nuovi del sistema delineato con la nuova legge elettorale. Hanno giocato tenendo conto delle regole sul campo, mentre gli altri non ne hanno tenuto conto. Berlusconi ha interessi reali, la sua capacità di gestire i propri interessi a livello aziendale è notevole, ma la capacità di tutelare politicamente gli interessi del nostro Paese è debole, alla lunga è debole anche la difesa delle sue aziende.

Pasquino. Intendevo “patto sociale” in senso tecnico, è chiaro che c'è anche un problema di cultura politica di fondo, cioè di un accordo complessivo sui valori: come si rappresentano, come si negoziano, come si decidono gli interessi. Ma non sono convinto che questo esistesse nella I Repubblica: c'erano accordi che poi si sfilacciavano, ma non c'era una cultura del negoziato, la cultura del compromesso tipica della democrazia.

Pedrazzi. L'interesse che è stato perfettamente rappresentato era l'interesse di quella classe politica.

Pasquino. Perfetto, dopo di che per la società sprigionava domande nuove che la cultura di quella classe politica neanche riusciva a capire e quindi c'è stato il distacco. Non avevano là cultura del compromesso nel senso buono, classico della democrazia. Nel nostro Paese evidentemente non c'è un elettorato che sia in grado di dare una valutazione dell'operato dei propri politici e questo crediamo sia dovuto ad un sistema educativo completamente mancante. Quale peso ha avuto la totale mancanza di un sistema educativo funzionante che va dalla scuola dell'obbligo alle superiori all'Università? Questo è un ragionamento molto rischioso. Primo: l'elettorato è fatto di analfabeti e allora noi poveracci di progressisti che siamo gente colta non potremo mai vincere, questo si sente dire. Il punto è che l'elettorato è quello che è e sta ai politici convincerlo a scegliere nella direzione opportuna. Non è che l'elettorato analfabeta ha fatto vincere Berlusconi o tutto l'elettorato che guarda la “ruota della Fortuna” ha votato Berlusconi. Se facessimo dei sondaggi credo che da questo punto di vista risulteremmo equamente divisi. Secondo: non possiamo nemmeno pensare che risolveremo il problema migliorando il sistema educativo perché questa è una operazione di lungo periodo e allora quelli di noi che vogliono governare saranno morti. Non possiamo neanche generalizzare sull'elettorato che posto di fronte a due coalizioni, una al Nord e una al Sud e una nazionale che si chiamava progressisti, ha deciso, con una percentuale non tanto elevata, di dare la maggioranza a quella che garantiva cose che l'altra non garantiva. Allora quella coalizione aveva detto due cose cruciali. Primo che stava facendo a meno dei politici di pro­fessione (in televisione dicono “io che non sono un politico di professione”, “io che vengo dalla società civile”, un messaggio antipolitico che in questo Paese ha un terreno fertilissimo), questo è il Paese del qualunquismo, che la democrazia cristiana ha coltivato a piene mani, che persino i socialisti hanno coltivato. Secondo che avrebbero fatto a meno delle regole oppressive dello Stato che i politici avevano creato per poterci lucrare (“noi vi daremo molto mercato”), argomento che al Nord era perfettamente credibile.
I progressisti non potevano negare di essere politici di professione, non potevano dire che avrebbero fatto a meno dello Stato, perché per una politica di rappresentanza vera degli interessi e di Governo, gli strumenti statali sono cruciali. Il vero messaggio che non si è riusciti a far passare è che è possibile riformare lo Stato, lo si può riformare in senso equo, lo si può addirittura far funzionare secondo criteri di equità e di giustizia.

Paolo Pombeni. Il problema fondamentale è che il sistema ha bisogno di una riforma radicale e non c'è la possibilità di rimettere il sistema in equilibrio con una riforma di breve periodo; però i progressisti non vogliono un discorso di lungo periodo perché sono politici di professione e vogliono governare adesso. Ci sono due possibilità di uscita: la prima è una progettazione seria, si vince anche con riforme che si impostano adesso e si portano a compimento fra trenta anni se sono delle riforme serie, riforme che trasformano la società. L'errore dei progressisti è che vogliono salvare tutto il carrozzone, non si può riformare questa società salvando tutti i diritti (degli insegnanti, degli artigiani, delle cooperative, ecc ...), molti dei quali sono diritti storici, incrostazioni di tipo corporativo e che rappresentano un passato che non torna più. Questa è una operazione dolorosa e a rischio di perdita. La seconda operazione da proporre è rendersi conto che non si possono fare tutte le riforme, ma se ne possono fare due, tre, privilegiando qualche settore. Non si può riformare la scuola, si possono fare trenta centri di eccellenza sperando che si rimetta in moto il meccanismo. L'Università è irriformabile, bisogna fabbricare dieci isole felici. Questa politica è una politica fortemente selettiva, dura, una politica keynesiana. Keynes era un liberale che si muoveva in una società fortemente competitiva e la competizione è uno strumento che va regolato. In politica, come sempre, nessuno sceglie gli intelligenti, i bravi, la gente sceglie sulla base di grandi umori e il grande umore di queste elezioni era “facciamola finita con questa vecchia classe dirigente”. La sinistra invece ha semplicemente detto “le cose prima non funzionavano, non perché abbiamo sbagliato tutti, ma perché hanno sbagliato gli altri”. E la gente non ci ha creduto. Ha votato emblematicamente per il perfetto sconosciuto, ha fatto come chi non sa come far quadrare il bilancio e compra il biglietto della lotteria di Capodanno. Berlusconi è stato il biglietto della lotteria dell'elettorato italiano. È drammatico questo? Per certi versi si, ma è sempre stato così. Diventerà drammatico se qualcuno capirà questo e nessuno riuscirà a mandare il messaggio che per risolvere la crisi economica non si può comprare il biglietto della lotteria, bensì bisogna avere una fase lenta, mediata, ma sicuramente di trapasso e costruzione. Occorre una classe dirigente in grado di gestire questa fase e questa classe c'è già. Ma il problema di questo paese è che non recluta, se voi guardate all'interno di tutti i sistemi, vi accorgete che sono bloccati, si entra solo se si è figli di qualcuno. Così è ormai nel sistema universitario, nel sistema dei media, nel sistema industriale, è un sistema di classi dirigenti fortemente bloccate. È sempre stato così: così all'origine del fascismo, così per Berlusconi. Una parte non piccola di giovani che si sente tagliata fuori dal mercato delle opportunità sceglie il ribaltone, sperando di aumentare le sue possibilità di accesso anche al circuito delle elites.

Pasquino. Non ho detto che le riforme che necessitano un lungo periodo non si debbano fare. Ho detto solo che chi pensa che l'elettorato sia analfabeta e si deve cambiare sistema scolastico, sa che occorrono trenta anni. Infatti i progressisti hanno perso non perché non dicevano queste cose, ma proprio perché le dicevano. Queste riforme saranno lunghe, ma devono essere fatte, purtroppo una parte dell'elettorato ha risposto noi quelle riforme non le vogliamo neanche vedere.

Pedrazzi. I risultati elettorali e i sondaggi fatti seriamente permettono di sapere meglio e di più. Non c'è mai “la gente”, ci sono settori, segmenti. È tutto molto complicato, ma nel breve periodo l'elemento decisivo è il confronto diretto tra i protagonisti che occupano l'arena. Avete detto bene: la grande forza di Berlusconi è stato il fatto che la vecchia classe politica era diventata indecente e andava allontanata. Lui ha lucrato questa straordinaria rendita, ma molti vengono capendo che mettere insieme leghisti, missini, ex democristiani e socialisti, per salvare la Fininvest e sistemare la Moratti alla presidenza della Rai, è solo una machiavellica furbata; ha già disgustato una parte consistente di italiani che lo hanno penalizzato alle amministrative. Berlusconi si è rivelato insufficiente, dal punto di vista della conduzione del confronto politico, in un paese democratico in cui alcune garanzie istituzionali ci sono tuttora. Non c'è un ribaltone nell'elettorato, c'è però già uno spostamento significativo. Il voto di novembre ha provato che c'è un dato nuovo su cui riflettere: chi era convinto che il potere potesse essere preso facilmente, deve ora scoprire tutta la difficoltà della politica. Il paese comincia a diventare un po' più attento alle esigenze anche di correttezza della politica. La situazione non è così drammatica come molti dicono, è vero che i miglioramenti convivono con situazioni sgradevoli. Che l'Italia sia entrata male, ma pur sempre entrata, in un sistema maggioritario che sta obbligando i politici a correre più in fretta, è indubitabile. E gli errori si pagano più in fretta.

Di fronte a tutto questo i “gruppi d'interesse” come si sono mossi, come hanno reagito?

Pasquino. I gruppi che hanno portato Berlusconi al governo sono ancora più forti dei gruppi sparsi della sinistra. Prima delle elezioni romane i gruppi di interesse di questo paese stavano pensando come avrebbero contattato i vincenti progressisti, non a caso Occhetto è andato alla City di Londra. Dopo di che, vi sono dei gruppi significativi che si sono ridefiniti rapidamente quando hanno capito che Berlusconi sarebbe sceso in campo, sono tutte le varie associazioni di commercianti e piccoli imprenditori. Se noi guardiamo la mappa dei gruppi di interesse, nella bassa pianura padana, cioè quella che conta, quella che produce soldi per eleggere la gente, non c'è un progressista eletto, non uno, dal Ticino fino a Venezia sono stati tutti vinti da Forza Italia e dalla Lega. E questi gruppi non si stanno ridefinendo per fare cadere la mela, possono essere insoddisfatti, spesso sono miopi, ma sono ancora lì e non vedono alcuna ragione per votare progressisti.

Pombeni. In questo momento il problema è di conquistare una piccola fetta del centro. Per far questo, a mio avviso, ci vogliono: progettualità, apertura alla classe dirigente nuova e fine del professionismo politico. Queste tre condizioni sono ostiche alla sinistra. Non bisogna pensare che la classe politica sia solo quella economica, non è vero. Si tratta di mettere in circolo gente da tutti i settori della società civile, nei giornali, nei partiti. Ma questo è, invece, il mondo delle maschere, chiunque è entrato in un certo ruolo fa ottantamila cose. Ad esempio: quando non posso andare dove mi chiamano consiglio un mio allievo, più bravo di me, ma non accettano e mi dicono “abbiamo bisogno di fare cartellone”. Ecco questa allora è una società truccata, una società vera non deve accettare questi discorsi!

Pedrazzi. L'elettorato è quello che è, la società è quella che è. Come ci si muove in questa società? È qui il punto. Ci sono dei gruppi di interesse che si stanno qualificando in modo nuovo. Molti degli interessi che si sono riconosciuti nella Lega, anche per il ruolo singolare di Bossi, non sono più disponibili a portare forza parlamentare e sociale a favore di Berlusconi, questo però non vuol dire che stia per vincere la sinistra. La transizione è molto complessa e il suo esito incerto.

Nel governo Berlusconi il ruolo del potere esecutivo è stato preponderante rispetto agli altri poteri dello Stato: il Parlamento ha avuto meno possibilità di legiferare per l'eccessivo uso dei decreti, vi sono state ingerenze nei confronti della magistratura, ispezioni più che controlli amministrativi, attacchi pubblici piuttosto violenti anche nei confronti del Capo dello Stato. Come si è modificato il rapporto tra i vari poteri dello Stato?

Pasquino. Secondo me questi contrasti sono fisiologici in un sistema come questo e forse sono anche utili perché evidenziano la necessità di riformare sia l'esecutivo, sia il sistema giudiziario. Non possiamo pensare che la Magistratura debba rimanere immune da processi di riforme. Quello che si è visto, il caso di Mani Pulite, è soltanto la punta. C'è anche una parte della magistratura che è sempre stata succube dell'esecutivo, del potere politico e continua ad esserlo, c'è anche una parte della magistratura che non fa quello che deve fare. Il fatto è che il controllo sull'operato del politico non spetta alla magistratura ma ad altre fonti, una delle quali è l'opinione pubblica, attraverso i mezzi di informazione. Tali mezzi però hanno problemi infiniti perché per operare un controllo sull'operato dei politici bisogna sapere di cosa si parla e spesso il giornalista non sa di cosa si parla, non va a scavare nelle informazioni: telefona ad un altro politico  e qui vince il politico spiritoso, soprattutto paradossale o plateale, uno dei quali è non tanto portavoce ma porta provocazioni, porta insulti. L'altro problema è che il controllo può essere fatto da un Parlamento solo se l'opposizione ha gli strumenti per farlo e la struttura del Parlamento italiano non è tale da garantire la possibilità di tali controlli, non c'è un sistema di informazioni che consenta all'opposizione di usare tali informazioni per fare controllo. Bisogna rendersi conto che anche l'esecutivo non è così forte, perché: primo è diviso al suo interno come coalizione di governo, secondo è diviso come maggioranza parlamentare, terzo non è coerente nella sua impostazione di lungo periodo e quindi automaticamente è debole, perché non avendo un progetto sul quale resistere non sa che cosa fare. Questo è il paradosso, se la riforma della politica viene da ceti che si sono arricchiti e possono permettersi di fare politica attraverso mezzi che non sono propriamente leciti, non potrà in nessun modo venire di lì. Il paradosso è che i politici sono meglio dei professionisti perché questi vengono in politica per difendere i loro interessi e non l'interesse collettivo e a questo punto lo scontro col potere giudiziario è inevitabile.

Pombeni. Vorrei aggiungere che il contenuto della grande riforma dovrebbe essere quello di ristudiare questo partendo da ipotesi ineliminabili: per esempio una certa forza concessa all'esecutivo è un trend storico, dal diciannovesimo secolo in poi i governi governano. L'idea che i parlamenti possano fare le leggi è secondo me un'idea un po' superata, è un mito. Le leggi le fanno i governi, i parlamenti seri costringono a farle bene. Il fatto che i governi facciano le leggi e il Parlamento intervenga a posteriori mi sembra una dialettica di ordinaria amministrazione difficilmente eliminabile. Poi esistono cose particolarmente complesse, alcune leggi di grande significato, leggi costituzionali in senso forte, le quali invece sono di iniziativa del Parlamento. Ma si tratta di eccezioni, perché l'80% delle leggi sono di carattere amministrativo. La riforma delle tasse la fa il governo, non la può fare nessun altro. Il Parlamento interviene sulle proposte del governo. Il problema è quello del controllo reale, cioè di far sì che un dato potere non possa andare oltre i limiti a lui assegnati. L'Italia ha un sistema in cui non si vuol dare il potere a nessuno e in tal modo i poteri sono indefiniti, prevaricanti. I magistrati devono avere molti poteri ma anche molti limiti, non può esserci la discrezionalità in questo campo, si tratta della vita delle persone, dei loro interessi. Non si può far morire una persona in carcere, l'uso che è stato fatto della carcerazione preventiva mi trova in totale dissenso. Bisognerebbe anche qui arrivare a una migliore articolazione fra gli organi indagati e giudicanti. Lo stesso va detto per il rapporto governo - opposizione: la possibilità di controllare il governo deve essere totale. Il problema è allargare il quadro dei diritti e il meccanismo del controllo e delle bilance, sapendo però che bisogna fare un sistema che finora non è esistito per nessuno. Il punto è qui: la debolezza di questo momento politico è che nessuno vuole riconoscere che tutti hanno da cambiare, non tutti nella stessa misura, però tutti hanno da cambiare.

Pedrazzi. Sono d'accordo che ci debba essere un cambiamento che riguardi il maggior numero di persone; è urgente che si arrivi ad una conclusione del grande conflitto in corso fra la magistratura inquirente e la classe politica. Eravamo andati abbastanza avanti su questa strada e infatti un settore consistente della classe politica è stato delegittimato. Ma la complessità della situazione italiana, i fatti di cui abbiamo parlato, fanno dire che siamo solo a metà di questo processo. In qualche modo deve esserci una fine giusta, le colpe devono essere individuate, in questo senso non sono d'accordo ad evocare la carcerazione preventiva e i suicidi come il problema più acuto. Il problema più acuto è che abbiamo avuto un sistema di immoralità diffusa e quando questo sconcio è emerso invece di dire che questo è sbagliatissimo, un settore abbastanza consistente ha fatto finta di niente. Sinceramente, i suicidi dolorosi di Cardini e di Cagliari vanno letti anche nel tradizionale collasso di persone che si sono trovate in contraddizioni estreme. Non sono stati i magistrati, ma la loro vita e cultura che li hanno portati alla decisione estrema.

Pombeni.  Cagliari si è ucciso a causa di questa situazione, io penso che l'uso della carcerazione preventiva che è stato fatto sia inaccettabile, è la stessa cosa della tortura.

Pedrazzi. Assolutamente no. Io penso che l'uso della carcerazione preventiva sia stato accettabilissimo.

Pasquino.   Il fatto è che molti erano in carcere non perché i giudici volevano ottenere le prove, ma perché questi inquinava­no le prove, cioè distruggevano documenti, avvisavano complici, questa è la carcerazione preventiva.

Pombeni.   Qui c'è una serie di problemi gravi, il problema del non inquinamento delle prove è giusto. Io chiedo: è il carcere l'unico sistema per evitare questo? Io penso di no.

Pedrazzi.   Il problema è che è mancata una presa d'atto seria del reale problema delle tangenti.

Pombeni. Il problema delle tangenti è molto più generale.

Pedrazzi. La questione è che sospetti troppo gravi colpiscono persone che pensano di potere dirigere il governo e di .controllare la “riforma fiscale”, è su questo che bisogna scrivere la parola fine. È fondamentale: o Berlusconi viene riabilitato o si prende atto che non ha titolo per fare il Presidente del Consiglio con efficacia, promuovendo e ottenendo comportamenti leali e responsabili.

La vita politica è oggi polarizzata tra sondaggi e slogan, i sondaggi che esprimono le impressioni, gli slogan che manifestano le emozioni. È vero che la comunicazione impone ed esige una semplificazione del messaggio, ma viene il dubbio che in questo modo a rimetterci sia proprio la politica, intesa come attività volta alla costituzione, organizzazione e amministrazione dello Stato. Ci chiediamo: come si può trovare spazio per le ragioni della politica?

Pasquino. Bisogna distinguere l'uso dei sondaggi. Ci sono sondaggi che hanno effetti di costruzione conoscitiva, è giusto fare sondaggi per sapere cosa la gente pensa di alcune cose e hanno una lunga tradizione direi anche nobile. Ci sono sondaggi che vengono invece agitati come strumenti per la costruzione artificiale dell'opinione pubblica. Qui c'è un problema di regolamentazione: i sondaggi dovrebbero essere fatti su un campione adeguato, il campione dovrebbe essere noto e bisognerebbe indicare il margine di errore perché come è noto i sondaggi hanno un margine di errore del 3%, che è moltissimo. Come strumento conoscitivo vanno bene, non possono essere utilizzati come strumento manipolativo. C'è un altro elemento: il sondaggio può servire davvero a dare all'uomo politico una serie di indicazioni che possono essere effettivamente utilizzate anche per la scelta; ciò detto però è responsabilità dell'uomo politico decidere anche in maniera contrastante rispetto ai sondaggi. Il politico non deve diventare oggetto del sondaggio, ma deve utilizzarlo anche per scegliere in contrasto con l'opinione pubblica. Io non sono disponibile ad esaltare il sondaggio come strumento di governo, un errore che viene commesso adesso, né a demonizzarlo come uno strumento assolutamente inadeguato perché in molti casi il sondaggio rivela non solo che cosa la gente sa ma anche le motivazioni. Dopo di che insisto nel dire che è responsabilità del politico decidere che uso farne. Non temo affatto la democrazia dei sondaggi, ma non penso neanche che possa affermarsi perché ci sono moltissime altre fonti di informazione e fin tanto che ci saranno strutture in grado di operare credo che i politici trarranno informazioni anche da altre fonti e faranno bene.

Pombeni. Condivido in pieno le cose dette da Pasquino. Il problema è come costruire un luogo più profondo per la politica, bisogna accettare l'idea che la politica non può che essere fatta professionalmente. Mi spiego. Quando prima mi scagliavo contro i professionisti della politica era contro il tipo di professionisti che noi abbiamo oggi, ma non c'è dubbio che in una realtà moderna la politica da amatori ha uno spazio molto limitato. Occorre costruire dei modi di formazione della classe politica, così che non ci sia una classe politica ristretta che si autoseleziona. Questo è un problema particolarmente sentito perché stanno morendo i partiti o sono già morti. I partiti quando funzionavano bene erano dei grandi formatori di classe politica. Io non credo che tutta la politica dal '45 in poi sia da rifiutare, in realtà i partiti hanno contribuito a formare molti uomini politici. A un certo punto, circa dopo il mitico '68, il meccanismo si è inceppato. Il '68 è stata l'ultima iniezione di una classe politica, poi non c'è più stato vero luogo di formazione. Allora, io credo che accanto ad un uso giusto dei sondaggi, deve esistere un luogo in cui si formano quegli uomini che poi utilizzano quelle informazioni, cioè i politici professionali, persone che vivono non di politica, ma “per” la politica e che queste persone siano in grado di porre in relazione i desideri della gente, noti attraverso i sondaggi e le altre fonti informative e i progetti per il futuro, perché questa io credo sia la politica.

Pedrazzi. A me sembra che i sondaggi si vengano opportunamente moltiplicando nella cultura e anche nella pubblicistica. Mi sembra però fondamentale la selezione di una classe politica che abbia competenze reali. Non so se l'aggettivo professionale descriva esattamente questa serietà comunque, in linea dì massima, può andar bene. Probabilmente ci vorrà molto tempo per vedere l'efficacia formativa di un sistema maggioritario, però io penso che darà ottimi risultati e quindi non ho paura del fatto che i partiti storici stanno declinando; stanno emergendo altre sedi istituzionali e sociali, quello che facevano i partiti lo fa sempre più il meccanismo elettorale e le sue modalità d'uso. Se si continua a votare la classe politica migliora.

Pasquino. Il problema non è se si continua a votare, il problema è che bisogna votare con un meccanismo che renda gli eletti molto più responsabili nei confronti dei loro elettori. La responsabilità non può che esserci se c'è un controllo da parte dei mezzi di informazione, ma soprattutto da parte dei gruppi, cioè se i gruppi invece di chiedere favori ai loro eletti chiedono di rendere conto di quello che hanno fatto. Non siamo ancora in questa situazione.

Gianfranco Pasquino, politologo e docente di Scienza della politica all’Università di Bologna.
Paolo Pombeni, docente di Storia dei sistemi politici europei all’Università di Bologna.
Luigi Pedrazzi, politologo e giornalista è stato tra i fondatori dell'associazione e della rivista Il Mulino.


© AF, gennaio-febbraio 1995

Nessun commento:

Posta un commento