mercoledì 16 novembre 2011

Berlusconismo, quale cultura politica


Negli anni 80 il berlusconismo si manifesta al Paese per la prima volta, assumendo un’accezione positiva e diventando sinonimo di “ottimismo imprenditoriale”.
Dopo pochi anni, però, diviene espressione di affarismo, corruzione, contiguità tra economia e politica, insofferenza e avversione alle regole, continuo aggiramento della legge, populismo, minimo rispetto delle istituzioni democratiche (Parlamento, Magistratura, Costituzione, ecc..).

Tale “cultura”, si costituisce un partito (Forza Italia prima e Popolo della Libertà dopo), fondato sulla incondizionata (spesso clientelare) nei confronti del capo - non di una idea, un progetto, un’utopia. A Berlusconi sembra essere lecito tutto e soprattutto quello che ai comuni mortali è vietato e possono al più sognare. Ma questi sono solo alcuni dei caratteri di un fenomeno che è diventato politico, sociale, culturale e perfino di costume.
Ho incontrato Nadia Urbinati, politologa di fama internazionale, esperta di democrazia e docente alla Columbia università di New York, per approfondire e analizzare un fenomeno che più passa il tempo e più preoccupa, non solo il nostro Paese, ma anche altre democrazie.

Professoressa Nadia Urbinati come possiamo definire e caratterizzare questo fenomeno politico, sociale e culturale?
Non é irragionevole sostenere che sia in atto una trasformazione dalla democrazia repubblicana a una repubblica cesaristica. Nel fenomeno berlusconismo mi sembra ci siano i segni di questo cambiamento, il quale ha alcune caratteristiche italiane e altre proprie di una società tardo-capitalistica, sempre piú impaziente verso l’eguaglianza e le regole e con una minore propensione a legare l’interesse personale a quello generale.
Il denaro è divenuto un terreno di battaglia e di conquista, un mezzo che non accetta moderazioni. E così come nelle antiche repubbliche fondate sul potere militare era difficile contenere il potere dei duci, oggi sembra si manifesti la stessa difficoltà nei confronti di quei leader che più sono capaci di perseguire interessi di tipo finanziario.
Le istituzioni democratiche con il loro fondamento egualitario, le norme di controllo, verifica e inclusione, sono sotto attacco e quasi impotenti a far fronte a questi interessi finanziari, che non hanno scrupoli ad aggirare le regole e a rifiutare il controllo del potere politico.
Possiamo allora dire che l’indifferenza e il disconoscimento delle regole, dei processi e degli orgasmi democratici dello Stato, sono in Italia ben rappresentati dal berlusconismo.

Piero Gobetti, nel 1923, definì il fascismo l’autobiografia della nazione, mentre Norberto Bobbio molte volte ha dichiarato: “Mi trovo spesso a domandarmi se il berlusconismo non sia una sorta di autobiografia dell’Italia di oggi”. Cosa ne pensa?
Sono convinta solo a metà. Mi convince di più l’analisi del fascismo italiano di Carlo Rosselli, piú attento alle responsabilità politiche di chi non lo aveva ostacolato. Egli criticava per esempio il partito socialista per non aver compreso il valore politico del suffragio universale e non aver contribuito a creare una società democratica capace di resistere alla dittatura.
Gobetti insisteva invece soprattutto sull’elemento etico, e concluse che “il fascismo è l’autobiografia della nazione”, perché riteneva che una nazione che non aveva conosciuto la riforma protestante, che era anzi cresciuta sulla reazione alla Riforma, aveva introiettato l’abitudine all’obbedienza non alle norme ma al comando, confondendola così con la conformità alle gerarchie religiose; questa nazione era quindi preparata ad accettare una nuova gerarchia. Il male dell’Italia, non era dunque l’anarchia (sempre possibile in una società incapace di autonomia), ma il conformismo, l’accettazione acritica e codarda del comando delle gerarchie.
Ma non credo che dopo oltre sessant’anni la democrazia non abbia lasciato traccia nei cittadini. È vero invece, che se emergono sempre diverse gerarchie che cercano di imporre obbedienza fideistica, è altrettanto vero che la democrazia non ci insegna questo, e questo insegnamento non é passato invano se la stessa Chiesa cattolica ha vissuto il Concilio Vaticano II.

La democrazia, e le regole hanno avuto sicuramente una funzione educativa, ma allora come è stata possibile ‘ascesa di Berlusconi?
Egli ha elementi propri grossolani e insieme spietati, ma esprime un fenomeno più profondo, simile a quello in atto in altre democrazie che sono in affanno, che non sanno opporsi al potere sovrabbondante degli interessi finanziari e a una ineguaglianza che cresce sempre di più. Un elemento specificatamente italiano é quello che proviene dalla guerra fredda, che per noi ha significato decenni di democrazia bloccata, perché le elezioni non potevano produrre un’alternanza della classe dirigente. A causa del blocco predeterminato delle possibilità di successo elettorale dell’opposizione (e del PCI come maggiore partito d’opposizione), le elezioni non hanno operato come dovevano, invece di essere uno stimolo a lavorare bene sono diventate uno strumento per comprovare una classe già selezionata dai partiti, e questo ha spalancato la porta alla corruzione e reso la democrazia una ritualitá vuota. Quando, nel 1989, il Paese ha avuto l’occasione di rinnovamento della classe politica, ció si é materializzato attraverso i tribunali, non le elezioni. La corruzione era infatti così radicata che il diritto penale è intervenuto al posto dell’impotente diritto di voto; è stata cosí cancellata in pochissimi mesi la classe politica dirigente di quasi tutti i partiti del Paese, e questo ha favorito le condizioni per l’ascesa di un “uomo della provvidenza”.

Nel berlusconismo la concezione dello Stato è tale per cui “la maggioranza deve prendere tutto”, confondendo lo Stato con il Governo, con l’idea che lo Stato sia al servizio del Governo, mentre in tutte le democrazie moderne è il contrario.
Da anni c’è un tentativo di stravolgimento della divisione dei poteri in nome della celeritá del potere decisionale; è un fenomeno non solo italiano ma peculiare a tutte le democrazie occidentali, che sembrano propendere verso forme presidenzialiste.
L’elemento esecutivista è sempre più evidente, al di là delle diverse organizzazioni istituzionali.
Berlusconi in qualche maniera può essere considerato il rappresentante di questo fenomeno, che era cominciato già nella cosiddetta prima Repubblica, quando diverse forze politiche spingevano verso il presidenzialismo (ricordiamo i dibattiti sul modello francese o tedesco).
A questo si deve aggiungere un fatto anomalo e straordinario allo stesso tempo, tutto italiano che si può definire neo-patrimonialismo, che ha trasformato la centralità dell’esecutivo nella centralità dell’interesse del suo leader. La scomparsa dei partiti, e il fatto che egli abbia fondato il “suo partito”, finalizzato esclusivamente ai suoi interessi personali, sono stati elementi cruciali di una forma di intervento politico direttamente a tutela degli interessi del capo.
Il patrimonialismo distorce le dinamiche democratiche, non solo nel senso che il Governo diviene centrale nella gestione dello Stato, ma nel senso che lo diventa l’interesse personale di chi governa.
In questi anni Berlusconi ha creato una piramide di fedelissimi intorno a lui, che si dirama su tutto il territorio nazionale e istituzionale; una vera e propria oligarchia, che opera con un Parlamento schiacciato al volere della maggioranza (che é volere del capo). Ecco allora che non c’è tanto la commistione Governo-Stato, quanto la conquista del Governo da parte di un interesse privato che usa le leve dello Stato per crescere. Questo è un modello manageriale che Berlusconi ha espanso in tutte le direzioni fino a diventare il segno distintivo di un modo di esercitare il potere, come i continui scandali testimoniano.
Dopo un’evidente perdita di consenso alle ultime amministrative di maggio 2011, Berlusconi e il suo entourage hanno capito che l’unico modo di andare avanti è essere ancora più determinati di prima “a fare come prima”, e a farlo in maniera più radicale, ignorando scientemente l’opinione dei cittadini.
Machiavelli sosteneva che per vincere una gara complicata occorresse metterci tutto, fortemente e in fretta. Berlusconi cercherà di fare tutto ció che potrá per riportare il suo consenso in alto, distribuendo favori e denaro, forse ancora piú di prima.

Possiamo semplificare il concetto, ma dire con correttezza che “lo Stato di diritto” si intende, sin dall’antichità, il governo delle leggi contrapposto al governo degli uomini (anche una qualunque possibile maggioranza, seppur legittimata dal consenso degli elettori, è fatta di uomini), e in base al quale tutti i cittadini, e a maggior ragione i governanti, sono sottoposti a leggi il cui scopo è di limitare il loro potere. Ecco allora che in uno Stato di diritto, nessuno, anche il più alto grado dell’ordinamento è sciolto da vincoli di legge.
Ma tutto questo sembra oggi ignorato o sovvertito all’interesse di una parte e gli attacchi indiscriminati alla Corte Costituzionale e al potere giudiziario, al Presidente della Repubblica, sono la più ampia dimostrazione del tentativo di sovvertire una concezione politica in cui ogni potere deve essere limitato non solo dalle leggi, ma anche dai diritti dell’uomo riconosciuti dalle Costituzioni.
Nel costituzionalismo classico, la regola del contenimento del potere non é un inibitore di azione, ma un tonico per l’azione politica. Questo perché quando c’è una regola alla base del nostro comportamento, si sa in anticipo quale sará la direzione in cui si svolgerá l’azione altrui. Anticipare implica prevedere che tutti seguiranno quelle regole, e ció é metá del risolvere perché conferisce sicurezza alla propria azione strategica.
Thomas Hobbes diceva che il problema dell’instabilità nasce dal fatto che noi non possiamo prevedere che cosa succederá poiché ciascuno sente di dover attaccare prima per non rischiare di soccombere. La regola mette fine a questo stato di incertezza e ci consente di fare piani per il futuro. Non dover stare sempre attenti a come si comportano gli altri perché si sa come essi si comporteranno. Quello che succede in questo nostro Paese é che chi governa vuole sovvertire l’ordine della norma e fare lui la norma; per questo ci vuol far credere che le regole del gioco sono un impedimento, che non ci consentono di giocare liberamente, e che quindi bisogna violarle.
Antonio Gramsci in un bellissimo articolo del 1918 metteva a confronto due modi di giocare: il football inglese e lo scopone italiano. Il football inglese ha un arbitro esterno (un potere neutro), che rappresenta la regola, la legge. I giocatori giocando tendono a violare la regola, ma c’è sempre l’arbitro che la riafferma e i giocatori non si ribellano al verdetto e accettano il risultato (e la sconfitta). Nel gioco dello scopone invece, non c’è arbitro; si potrebbe pensare che i giocatori abbiano introiettato la norma, in realtá hanno introiettato la pratica dell’aggirare e “fregare” l’altro, e per raggiungere l’obiettivo usano tutti i trucchi possibili, cosí alla fine chi perde non accetta mai l’esito, finendo spesso in baruffa. L’intervento dei carabinieri chiude spesso le partite a carte, scrive Gramsci, perché non si accetta di perdere.
La regola ci permette di giocare e di accettare la sconfitta. Oggi invece c’è impazienza verso la regola, anzi si pensa che a deciderla debba essere il giocatore stesso, il più forte.  È veramente il governo degli uomini contro il governo della legge.
C’è stato in questi anni una lotta quasi di trincea: tra le leggi e gli uomini, tra il governo della legge e il governo di un qualcuno. Le Leggi, diceva Platone, sono l’unico vero tiranno, sono loro che devono dominare. Ma oggi in Italia sembra non essere così; il presidente del Consiglio vuole stare al di sopra.
Di tutti i vari caratteri questo è quello più distintivo del berlusconismo, quello che forse fa ancora presa nella società italiana, per questa nostra consolidata abitudine a cavarcela senza norme, senza legge e, quando ci sono, a farne un uso. Berlusconi ha trovato facile sponda nella nostra fiacca etica della legalità. È paradossale dire questo, ma egli fa della in-Costituzionalitá la Costituzione. Lui lo fa in modo eccessivo, ma ognuno di noi, nel nostro piccolo, fin da bambino è stato educato a cavarsela in questo modo,  a non rispettare le regole o a fare delle non-regole la regola. Ecco allora che non basta dire che la responsabilità di tutto questo è della politica; occorre dire che anche la società civile ha responsabilità enormi.

La storia del pensiero politico consiste nell’escogitare strumenti istituzionali destinati a far si che chi possiede un qualsiasi potere non sia tentato o non in condizioni di abusarne. Il rimedio fondamentale è stato sempre la lotta contro la concentrazione di più poteri nelle mani di un solo individuo o di un solo gruppo.
Eppure in questi anni, con grande responsabilità, anche e soprattutto dei governi e della classe politica di sinistra, non si è riusciti ad affrontare il tema del conflitto di interesse e peggio ancora, sta continuando un’azione legislativa ad personam. Cosa succede? Siamo sul confine del dispotismo?
Il potere è una passione vorace che non ha limiti, e la politica è il peggiore oggetto di questa passione; ecco la continua lotta per averne in quantitá sproporzionata.  
James Madison ci dice che abbiamo due modi di risolvere questo problema: reprimere, ma così non c’è libertà per nessuno, oppure fare in modo che nessuno possa, con la propria fazione, il proprio gruppo e il proprio interesse diventare il padrone di tutto il campo. Divide et impera.
Occorre dividere il potere in tanti rivoli; il pluralismo é il fondamento della libertà. È stato un errore gigantesco o meglio ancora una colossale truffa ai danni del bene pubblico, aver detto che, a fronte del potere monopolistico della TV pubblica, bisognava creare un monopolio privato per determinare competizione o un equilibrio. Si é così giustificata la legge che ha creato il monopolio delle TV private nelle mani di Berlusconi. Il potere si deve dividere se lo si vuole limitare; il duopolio é una truffa.
Ancora oggi si dice, “privatizziamo la televisione pubblica”. No! Va tolta dal potere del Parlamento (ovvero della maggioranza), non va privatizzata. Dobbiamo formare un vero potere pubblico dell’informazione, non della maggioranza, non parlamentare, ma per esempio attraverso un’authority autonoma sul modello BBC. E nel contempo dobbiamo spezzare quello privato, che oggi è totalmente in possesso di Berlusconi. Il problema non scompare con la dipartita di Berlusconi dalla Presidenza del Consiglio, perché tre televisioni nazionali stanno nelle mani di un unico editore.
Ma rimane il fatto che ad oggi nessuno, partiti di sinistra in testa, ha avuto il coraggio civile, la lungimiranza politica, l’intelligenza di affrontare la questione del monopolio delle TV private  e ho dei grossi dubbi che la questione possa essere posta, a breve o nei prossimi anni, all’ordine del giorno dell’agenda politica.

Berlusconi (con il suo partito e i suoi uomini) riassume nella sua persona un potere economico, politico e culturale però paradossalmente si è fatto paladino di una prospettiva liberal-democratica. Per rafforzare questo messaggio elettorale ha sempre sostenuto che l’Italia è stata sino a dopo Tangentopoli un paese di socialismo reale, “come se in quegli anni – diceva Bobbio - fosse stato sottoposto a chissà quali angherie o emarginazioni  o esiliato e non avesse invece goduto spudoratamente dei vantaggi del regime”.
È questa un’altra delle tante anomalie italiane?
Berlusconi è il più anti-liberale, essendo un detentore di monopoli; inoltre è un politico che confonde il  pubblico con il privato e che cerca, in tutte le occasione, di scavalcare ogni forma di rappresentanza , della legge e/o politica; é un magnate che utilizza lo Stato per il suo personale e privato arricchimento.
Con le sue televisioni è penetrato in tutte le case e con le telenovelas, probabilmente, “ci ha fatto il lavaggio del cervello”. Ha fatto di se e della sua storia una telenovela ed è riuscito a farla ammirare agli italiani, anche grazie ai suoi tecnici del marketing. È probabile, anche per raggiunti limiti di età e forza fisica e mentale, che la sua fase si sia conclusa, ma quello che mi preoccupa è che in questi anni egli ha seminato abbondantemente e quindi c’è il pericolo che emerga qualche suo clone politico, magari nella sua stessa famiglia.

In ogni settore: dall’economia, al sociale, dalla cultura alla moralità pubblica, dalla ricerca all’imprenditorialità e alle condizioni del mondo del lavoro, tutti gli indici europei ci dicono che il nostro Paese è scivolato velocemente verso gli ultimi posti.
Quali possibili soluzioni politiche a questa profonda crisi generalizzata?
Io non sono una disfattista e non mi convincono gli scenari apocalittici e chi li fa. Berlusconi  fa parte di un fenomeno per niente irrazionale, lo comprendiamo e lo sappiamo. Quale che sia il livello del marcio e della corruzione, sappiamo che le istituzioni hanno tenuto: prima di tutto perché ancora si può votare contro; poi perché, nonostante il lavaggio del cervello, gli italiani hanno resistito e anche attraverso i media online hanno diffuso informazione alternativa, contrapponendosi ai palinsesti di Mediaset e della tv stile Minzolini.
Mi preoccupano ancora i possibili risvolti politici di questa prolungata ed estesa crisi economica, che potrebbe creare le condizioni per un accordo politico opposizione maggioranza (il trasformismo), che farebbe dei danni inimmaginabili.
Vedo comunque vicina la sua dipartita politica, e naturalmente non mi auguro che diventi il prossimo presidente della Repubblica o che venga incaricato qualche suo accolito.
Poi andrà avanti sempre così, come in tutte le democrazie; non saremo mai contenti di quelli che ci governano, li contesteremo, li cambieremo con il voto, ma tutto questo va bene, this is what democracy is.
La questione negativa e della qule dobbiamo preoccuparci, é che oggi c’è un blocco che impedisce il naturale corso democratico, perché qualcuno ha stravolto le regole del gioco, le ha violate per il suo personale interesse e potere; la speranza viene dal Paese che sembra pronto per ristabilire quelle regole, benché sia bene non illudersi.

Sembra che ci sia una maledizione o meglio una costante nella storia della sinistra italiana: nei momenti difficili si divide così da facilitare la destra. Cosa ne pensa?
Ci sono state delle divisioni, ma ci sono stati anche tentativi falliti di unioni all’interno della sinistra. Nel 1981 per esempio, Berlinguer ruppe il compresso storico con la DC per tentare una unità delle sinistra, ma produsse l’effetto opposto e Bettino Craxi, leader del Partito socialista, lo ostacolò fortemente per essere lui l’alleato centrale della DC. L’obiettivo dell’alternanza fallì.
Rimane la possibilità di creare delle federazioni o delle forme di cooperazione, ma il sistema elettorale non aiuta. Ecco allora che la scelta di un sistema proporzionale con lo sbarramento potrebbe essere buona perché offrirebbe ai partiti medio-piccoli (o non troppo piccoli) la possibilità di esistere, e nello stesso tempo costringerebbe i partiti a mettersi insieme, se vogliono fare una maggioranza. Ma non credo affatto che solo questo basti per risolvere il problema.
Oggi è in atto qualche tentativo di avvicinamento tra i partiti di sinistra, e mi auguro che si arrivi presto in porto, ma è necessario anche un sistema elettorale diverso, altrimenti difficilmente si realizzerà un’alternanza ed è molto alto il rischio che ricomincino a litigare nel momento stesso in cui potrebbero vincere.
Occorre, inoltre, inventare forme di intervento politico della società civile, un movimento che sia capace di dare delle indicazioni al Governo.
Io sono convinta che le azioni di referendum siano ottime. Siccome i nostri parlamentari non hanno il coraggio, ad esempio, di cambiare la legge che stabilisce il monopolio delle TV di Berlusconi, la società si attivi per proporre un referendum su quella legge. L’impotenza delle istituzioni parlamentari non si risolve necessariamente in un’impotenza della cittadinanza democratica.  
E’ vero invece che mancano personalità politiche di rilievo. Mi spiego meglio: non sono una populista però credo che in democrazia sia importante il ruolo della personalità politica, come per Temistocle, Pericle, Washington, Roosevelt, De Gasperi, Eisenhower.

È innegabile una estesa decadenza del Paese e delle sue classi dirigenti comprese quelle definibili di sinistra, ma non perché siano state incapaci di contrastare il fenomeno, ma perché forse esse stesse ne sono state preda. È  un giudizio troppo semplicistico?
Quello che temo è che alcuni argomenti della politica di Berlusconi entrino nella mentalità comune. Per esempio, sono una grande sostenitrice della scuola pubblica. Vedo invece che nel PD emerge una contrapposizione dell’anima privatista e di quella pubblica o statale. Quello che per me é un principio costituzionale incedibile, non lo è più per tutti.
Una democrazia costituzionale stabile ha bisogno di una scuola pubblica buona o ancora meglio eccellente. Dobbiamo garantire un’ottima qualità di insegnamento, altrimenti il degrado civile e le difficoltà, anche politiche, saranno irreparabili.
Occorre anche fare un lavoro di rieducazione alla politica istituzionale e al senso civico. I partiti dovrebbero realizzare di nuovo scuole di politica, ove sia possibile spiegare cosa sia il governo della legge, o la necessità di una divisione e pluralità dei poteri e perché se anche un giudice sbaglia la magistratura rimane intoccabile.

Quale identità per una sinistra moderna e progressista?
In un articolo del 1935 Rosselli indicava “un socialismo federalista liberale”, mentre Bobbio, nel 2000, scriveva che “una sinistra moderna, se è giusto che abbracci i principi del liberalismo, non deve però dimenticare quelli della tradizione socialista”.
La democrazia non vuole l’uguaglianza dei risultati, accetta le condizioni della fortuna e della capacità umana, però chiede che ci sia una uguaglianza nelle condizioni di opportunità, condizioni non ineguali di possibilità. Questo è essenziale altrimenti, se i punti di partenza sono distanti e disuguali la democrazia è poco piu di un oggetto di culto.
La cultura democratica e di sinistra deve abbracciare entrambi questi elementi: la solidarietà umana, il rispetto dei diversi ma anche la difesa delle opportunitá delle persone e la libertà, perché senza queste condizioni si forma facilmente il privilegio.

Gli intellettuali possono avere ancora un ruolo nell’orientare i destini della politica?
La democrazia non ama i maestri di pensiero, chi da consigli su come vivere; non a caso ha condannato Socrate (salvo poi pentirsene). La democrazia è molto orgogliosa dell’uguaglianza tra le persone, e questo va rispettato. Però coloro che lavorano nel mondo delle idee e delle opinioni, che siano giornalisti, professori universitari, insegnanti o operatori del mondo delle istituzioni, dovrebbero sentire il dovere morale e la responsabilità di intervenire e partecipare, perché la loro società democratica potrebbe essere in pericolo se lasciata in mano a persone arroganti o furbe.
L’intellettuale di professione però non ha più senso e tantomeno l’intellettuale legato a un partito politico. Noi tutti abbiamo solo un partito ed è la Costituzione della nostra democrazia: è il nostro punto di riferimento, ci indica il bene generale, l’interesse comune. Gli intellettuali hanno certo un ruolo, ma non, come nel passato, dentro un ordine della storia – ideologico – bensì al servizio della Costituzione; di cui dovrebbero essere i paladini.

In questo mondo globalizzato in tanti continuiamo a discutere di idee, mentre oramai ciò che conta sono i grandi interessi economici e finanziari che scavalcano la politica, figuriamoci la cultura. “I potentati economici e finanziari diceva Bobbio - muovono il mondo e non so se varranno ancora le regole dello Stato democratico e di diritto, che finora è stato il nostro modello ideale e se sopravviverà la distinzione fra ciò che è lecito e ciò che è illecito? “
Cosa ne pensa?
Bobbio anche in questo caso lungimirante. Se lo Stato moderno é nato dalla lotta tra divino e secolare, e si é stabilizzato separando le sfere di potere, la democrazia costituzionale sembra dover combattere su una nuova frontiera, quella tra il potere dei mercati e il potere delle decisioni politiche. Oggi sembra che la dimensione della politica sia molto in affanno, e soccomberá ai dettati (questi si tirannici!) dei mercati se non sará in grado di creare nuove regole, a livello mondiale. Nel passato la democrazia ha sapunto mostrare una notevole capacitá di immaginazione, inventando letteralmente regole e istituzioni. Di questa sua capacità c’é molto bisogno oggi.

© AF, settembre 2011

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