lunedì 18 ottobre 2010

Scienza e Pace


Il progresso scientifico ci dà una vita più comoda e in molti sensi migliore. Ma ci dà una vita “superiore”? Obiettivi globali? possibilità di convivenza? Una cultura di Pace? Ne discuto con Antonino Drago, docente di Storia della Fisica presso l'Università degli studi di Napoli e da anni è impegnato nella promozione e nello studio dei temi della pace e della non violenza.

Quale è il ruolo della scienza nel nostro tempo?
Siamo in un mondo in cui ciascuno di noi ha potenzialità enormi e che un Re di cento anni fa neanche sognava. A livello di potenzialità operative come pure a livello di conoscenza sembra quasi che non abbiamo più limiti. Si dice che l' "uomo è libertà". Sappiamo bene che la responsabilità precisa di questo cambiamento drastico del modo di vivere non è della religione né della filosofia, ma è della scienza e della tecnologia, tanto che esse oggi rappresentano il valore fondante la nostra civiltà.

A tutta questa capacità singola e collettiva dell'umanità corrisponde un progetto che dia valore all'uomo?
La difficoltà di fondo di questa situazione è che nessuno di noi sa cosa significa scienza e tecnologia. Tanto per cominciare non ne abbiamo coscienza storica. Perché la scienza è nata in Occidente e non in Oriente? Perché i romani non hanno curato la scienza, quando invece i greci l'avevano già cominciata? Perché la scienza è maschilista? Perché la scienza ha avuto certi avanzamenti in alcuni tempi? E perché è progredita in una certa maniera? Quì l'Occidente ha dimostrato la sua debolezza estrema, non c'è un filosofo che abbia saputo insegnarci qualcosa di utile.

Ma allora non abbiamo nessun insegnamento da seguire?
Bisogna richiamare l'insegnamento di persone che non sono state omogenee a questo tipo di civiltà e al suo tipo di pensiero. Al colmo del successo Tolstoj pensò di suicidarsi, allora si pose la domanda: “Per ragioni vale la pena vivere?”. Pensò che la risposta potesse venire dalla scienza ed allora studiò tutta la scienza, ma arrivò alla conclusione che la stessa non diceva nulla intorno alla questione: "Perché vivere?". Per la delusione si pose la domanda che è risuonata in tutta l'Europa: "A che serve la scienza se non insegna: perché vivere?” (Le Confessioni, Garzanti, 1975), Tolstoj ha poi iniziato la tradizione della non violenza che ha indotto insegnamenti molto forti. Ad esempio in Gandhi, il quale  1908 (La loro civiltà e la nostra liberazione) propose una critica spietata alla scienza e alla tecnologia occidentale. L’ha proseguita Lanza del Vasto (I quattro Flagelli, SEI, 1995).

Che cosa dice Lanza del Vasto?
Egli ha dato una chiave interpretativa precisa: la scienza e la tecnica ci portano ad una espansione, ma non ad un livello superiore. Infatti ognuno di noi non si avvilisce, come sarebbe naturale, a pensare che secondo la scienza siamo su un sassolino che si chiama Terra disperso nell'Universo; perché crediamo che comunque la scienza ci fa crescere. Cioè essa ha una promessa intrinseca di espansione della nostra vita in un modo tale che ci fa sembrare di raggiungere una vita migliore, anche se non è superiore.
Con la scienza riusciamo ad essere perfettamente funzionali ad un obiettivo singolo in un dato momento, anche se di questo obiettivo il giorno dopo ci siamo già dimenticati; perché comodità e obiettivi momentanei possono essere banalità. Il punto è come vivere la vita nella sua interezza e nella sua potenzialità superiore ed è su questo punto che la scienza viene a mancare. Ce ne accorgiamo quando osserviamo come l'impulso della vita lo mettiamo noi e la scienza mette solo le cose.

Quelle che lei ha espresso sono critiche alla scienza, ma si possono vedere anche aspetti positivi?
In via subordinata la scienza sta facendo un lavoro importante: quello di forzarci tutti ad avere una presa di coscienza universale dell'umanità. Perché è con i suoi ritrovati: il telefono, il fax, la TV, i giornali, internet, con i viaggi facili che noi diventiamo persone planetarie - forzatamente o per spirito di avventura - ed è anche con le minacce tremende che la ricerca scientifica produce (scorie radioattive, inquinamenti, bioingegneria) che noi prendiamo coscienza di essere all'interno di un solo organismo che è l'umanità, presente e futura. E’ questa la coscienza che nei millenni le religioni si sono sforzate di predicare, ma mai la si era realizzato in maniera concreta, se non da parte di poche persone superiori. Oggi la scienza forza tutti a questa capacità.

Quindi questo è un grande progetto positivo della scienza per l'umanità?
Sì, ma abbandonata a se stessa la scienza ci spinge ad ampliare la coscienza a tal punto che ci forza anche ad esplodere per raggiungere tutti i sassi del cielo, dove gli uomini a costi proibitivi potrebbero forse sbarcare dopo anni luce di viaggi e altrettanti per formare le condizioni di vivibilità; tempi che ci prenderebbero tutta la vita e oltre. La prospettiva di crescita della coscienza umana ha invece senso nella misura in cui la coscienza raggiunge tutti gli uomini.. La prospettiva espansa a livelli ulteriori è follia. Abbiamo già vissuto a livello mondiale due episodi di progettualità scientifica "esplosa": quella delle centrali nucleari e quella della corsa agli armamenti. Ne siamo momentaneamente guariti perché abbiamo deciso di fermarci aiutati dai contadini della Puglia nel primo caso e dai popoli dell'Est nel secondo; in ambedue i casi andando contro la razionalità che veniva dichiarata scientifica.

Chi risolve i conflitti con le armi ragiona male?
I conflitti sono la cosa meglio distribuita nel mondo. In un conflitto si parte dall'idea che l'altro è un nemico, una persona che consideriamo negativa. Il che porta a risolvere il conflitto sopprimendo od opprimendo l'altro; questa è stata la maniera occidentale, nella quale si considera la sola logica classica, dove c’è il vero e c'è il falso come il suo esatto contrario, mai una terza possibilità. Allora il nemico è il Male, io sono nel giusto e lui nel torto. La conclusione è ovvia. Ma c’è un altro modo per uscire dal conflitto, quello di negare l'idea che l’altro sia un nemico. Con le usuali soluzioni dei conflitti si prende una parte per il tutto, invece di tener presente che c'è anche un'altra maniera di ragionare. Ne segue che finalizziamo il nostro comportamento a obiettivi parziali. Mi piace paragonare questo modo di fare a quello di un giovane di quindici anni che si lancia nell'avventura, ad esempio sulla moto, come se tutta la vita fosse racchiusa nell'atto che sta compiendo in quell'istante. Questo errore è avvenuto più che mai nel ‘900 che è stato il secolo dell'incoscienza. Ha iniziato con alcune enormi potenzialità, ma senza curarsi di conoscere o prevedere tutte le possibili conseguenze. Ne sono nate guerre mondiali, dittature, bombe atomiche, arrivando sull'orlo del precipizio molte volte.

Ma allora, come risolvere il conflitto attraverso la scienza?
Se la scienza è divisa in se stessa fin nelle sue fondamenta essa perde ogni valore assoluto. E non basta cercare un organo di controllo, come se fosse un cittadino indisciplinato e nemmeno cercare un limite tecnico, come se la ricerca scientifica che per sua natura corre lo potesse rispettare. Davanti alla sua divisione di fondo occorre scegliere. Ad esempio, così abbiamo fatto sul problema delle centrali nucleari. Ci dicevano: o le centrali o il black-out. I contadini della Puglia prima e il referendum poi hanno aperto la porta all’alternativa del solare. Sulla corsa agli armamenti ci dicevano che non c’era altra razionalità nella difesa nazionale. Invece nel 1989 i paesi dell’Est hanno vinto la divisione di Yalta senza quelle armi che prima sembravano razionalmente inevitabili. Pure sulla scienza si può scegliere. Qui occorre recuperare tutte le nostre capacità collettive di scelta, altrimenti saremo burattini nelle mani di chi fa le scoperte scientifiche, le quali ci possono cambiare la vita dall'oggi al domani. Solo se sceglieremo la scienza allora romperemo la camicia di ferro che ci costringe tutti dentro un progresso unico, gestito da altri o da una cosa impersonale quale è la ricerca scientifica.

Uscire dal progresso unico per andare dove?
In questo tempo, per la prima volta nella storia, almeno in buona parte dell'umanità i rapporti uomo-donna sono cambiati radicalmente. Oggi l’uomo e la donna sono considerati alla pari e per la prima volta abbiamo la possibilità di costruire una società pluralista perché la riconosciamo pluralista sin dall’inizio, dalle differenze di sesso. Da qui possiamo prendere le mosse per riconoscere finalmente che non si deve essere tutti uguali che ci sono più maniere di fare scienza, più maniere di fondare una società su un patto costituzionale. Solo quando usciremo dal progresso unico determinato dalle invenzioni di laboratorio, saremo capaci di recuperare una nuova antropologia, costruita su un pluralismo di potenzialità e in termini di riconoscimento reciproco delle differenze essenziali e della loro conciliazione.

Lei crede che nonostante l'attuale pensiero unico e la attuale acquiescenza della gente si possa pensare a una nuova era del mondo?
Sì, ma dobbiamo far crescere una mentalità che sappia vedere il pluralismo sia nella maniera di ragionare, sia nella scienza tutta, sia nelle persone e sia nelle società possibili e allora potremo dire che "siamo all'inizio di un'età matura del mondo” in cui l'uomo avrà saputo gestire la sua vita superiore. Allora come segno decisivo di questa maturità avremo la padronanza del vivere in comune e l'uomo sarà veramente socializzato e la società sarà umanizzata.

E' la scienza che ha portato l'uomo alla possibilità di conoscere i segreti più intimi del mondo, ma anche a manipolare e trasformare in modo irreversibile e forse distruttivo i meccanismi della natura. In che misura la scienza ha prodotto la globalizzazione della comunicazione, dell'economia e della politica? L'uomo per la prima volta come lei ha detto sperimenta l'essere partecipe di un unico corpo la Terra, ma quale valore hanno in questo ambiente planetario le relazioni umane? E' ancora centrale la persona umana?

La prima progettualità siamo noi che dobbiamo dare ordine alle cose prodotte dalla vita tecnologica, altrimenti saremmo semplicemente una cassa di risonanza. Occorre lavorare per ritrovare l'unità in noi stessi. Per far questo occorre dare importanza prima di tutto alle persone e poi alle notizie. Noi siamo esseri essenzialmente sociali che debbono vivere in gruppo non tanto virtualmente, ma con persone concrete. Ma se noi decidiamo di vivere in gruppo, occorre conoscersi e non basta vedersi una mezza giornata, occorre conoscersi nel nostro percorso di vita. La vita è quell'insieme di relazioni forti che uno stabilisce con quelle persone di cui conosce vita, morte e miracoli e allora sa valutarle anche se sappiamo bene che per convivere con altre persone occorre avere una grande attenzione.
Il villaggio, il piccolo paese che proponeva Gandhi è l'unico luogo vivibile, l’unico luogo dove una persona può arrivare a conoscere in profondità le altre persone.

© AF, dicembre 2000

Nessun commento:

Posta un commento