mercoledì 11 marzo 2009

L'uomo al servizio della tecnologia?


Mercato, crisi, recessione, questi termini fanno ormai parte del nostro vocabolario quotidiano e ruotano tutti attorno al nodo lavoro. Un problema messo in primo piano soprattutto a parole e che pure, al di là di tutto, è problema vero e pare non avere soluzioni certe, perlomeno in termini tradizionali.


Dove va il mercato del lavoro? E come cambia? Queste domande rappresentano il nostro punto di partenza. e anche se non si riuscirà a fornire risposte "definitive", si vuole tentare un approccio in prospettiva ad un problema, quello del lavoro (o del non lavoro), che è comune a tutti i paesi industrializzati (e non) del mondo. Cambiano le prospettive, gli spazi, i tempi e soprattutto i modi di lavorare, le tecnologie in continua espansione si rivelano spesso come un terribile "Giano Bifronte": se da un lato, infatti, facilitano e velocizzano le procedure, dall'altro sottraggono spesso spazio a intere categorie di lavoratori, escludendoli dal meccanismo di produzione. E la "mutazione" del mondo del lavoro non si limita certo ad evoluzioni terminologiche...
Nel mondo, più di 800 milioni di persone sono disoccupate o sottoccupate. In Europa sono 13 milioni i disoccupati, pari alla popolazione di un intero Paese dell'Unione Europea, in Italia circa tre milioni. Questi numeri sono probabilmente destinati ad aumentare ulteriormente in questi ultimi anni che ci separano dal terzo millennio.

La rivoluzione informatica e delle telecomunicazioni sta spianando la strada a una nuova civiltà in cui la produzione verrà gestita da tecnologie sempre più sofisticate, e l'ottanta per cento della forza lavoro, su scala globale, da qui ai prossimi cinquant’anni verrà estromessa dal mercato. Le macchine si sostituiscono al lavoro umano e rendono prevedibile l'avvento di un'economia di produzione quasi completamente automa­tizzata entro la metà del XXI secolo. Milioni di lavoratori sono già stati permanentemente eliminati dai processi produttivi ed economici, intere categorie di mansioni e di professioni si sono ridimensionate quantitativamente, altre hanno subito ristrutturazioni o sono completamente scomparse. Altrettanto innumerevoli saranno le persone che nei prossimi anni affacciandosi per la prima volta sul mercato del lavoro si ritroveranno senza alcuna possibilità di essere occupate. "Nel passato, quando le tecnologie si sostituivano ai lavoratori in un determinato campo — scrive Jeremy Rifkin nel suo ultimo saggio La fine del lavoro — sono sempre emersi nuovi settori ad assorbire quella parte di forza lavoro diventata eccedente. Oggi, i tre tradizionali campi dell'economia — agricoltura, industria e servizi — stanno vivendo una destabilizzazione tecnologica che spinge milioni di persone nelle liste si disoccupazione. L'unico nuovo settore che sta emergendo da questo processo è quello della conoscenza — il knowledge sector, costituito da una piccola élite di imprenditori, scienziati, tecnici, programmatori di computer, insegnanti e consulenti. Sebbene sia in crescita non ci si aspetta che tale ambito possa assorbire più di una minima frazione delle centinaia di milioni di individui che verranno espulsi dal mercato del lavoro nei prossimi decenni a causa dei rivoluzionari progressi delle scienze dell'informazione e della comunicazione."

La trasformazione generata dal computer, che già ai primi segni, cinquant’anni fa, ossessionava la nostra società, non ha niente a che vedere con le rivoluzioni industriali del passato. Le "macchine pensanti" permettono guadagni di produttività senza precedenti (più di 2,2 % all'anno da cinque anni, cioè due volte la media degli ultimi venti anni) e invadono tutti i settori, pubblici o privati. Le macchine stanno prendendo il posto dei lavoratori anche in tutti i paesi in via di sviluppo. Se l'analisi di Rifkin, sostenuta da ricerche accurate e approfondite, è abbastanza certa, come possiamo legittimamente presupporre (anche se molti economisti giurano, argomenti alla mano, che Rifkin ha esagerato), la fine del lavoro è più che mai una certezza. È un problema con il quale saremo costretti a convivere per tutto il resto della nostra vita e per quella dei nostri figli.

Gli effetti destabilizzanti di questa che è stata definita la Terza Rivoluzione Industriale, si avvertono già in tutto il mondo. In tutte le economie avanzate, nuove tecnologie manageriali mettono fuori gioco la forza lavoro, creando un esercito di riserva di lavoratori, allargando la frattura tra ricchi e poveri, generando livelli pericolosamente elevati di tensione sociale. In molti paesi industrializzati, la forte disoccupazione, sta portando ad un aumento diffuso della criminalità e della violenza, dando una chiara visione dei pericoli che ci aspettano. La perdita di opportunità di lavoro e della speranza di un futuro migliore condiziona, più di tutti, i giovani, portandoli facilmente ad una cultura e ad una vita di crimine e di violenza. La rivoluzione del computer apre le porte, per la prima volta nella storia, a un radicale riorientamento della società, dal lavoro organizzato verso la libertà personale. Per chi conserverà un posto di lavoro aumenterà il tempo libero, ci saranno più possibilità di sviluppare la vita di relazione, di dedicarsi ai propri interessi e alla famiglia, all'attività sociale e culturale. E questo perché si diffonde e viene sempre più accettata l'idea della settimana corta come equa alternativa alla disoccupazione di massa permanente. Anche in Europa, dove il numero dei senza lavoro ha raggiunto i livelli massimi dal dopoguerra, la domanda di riduzione dell'orario di lavoro si sta diffondendo velocemente. Sono queste alcune delle conseguenze di un problema "la fine del lavoro" che la società si trova a dover fronteggiare, in modo risoluto, fino all'inizio del nuovo Millennio, anche se le soluzioni e le strategie possibili sono ancora tutte da chiarire e verificare. La transizione verso la Terza Rivoluzione Industriale mette in discussione anche molte delle idee prevalenti circa il significato e la direzione del progresso. Per gli ottimisti, i futuristi di professione, i leader politici d'avanguardia, gli amministratori d'azienda, l'era informatica è l'inizio di un'epoca dorata di produzione illimitata, di nuove ed entusiasmanti innovazioni tecnologiche e scientifiche, di mercati integrati e di gratificazioni immediate. Per gli altri, il trionfo della tecnologia sembra più una maledizione per chi diventerà inutile nella nuova economia globale a causa degli straordinari progressi nell'automazione che stanno eliminando così tanti esseri umani dal processo di produzione. Per loro il futuro è pieno di disperazione, non di speranze, di una rabbia sempre più forte e non di aspettative. Una umanità il cui destino tende sempre più verso la rivolta sociale e la ribellione contro un sistema che li ha resi invisibili. "All'alba del Terzo Millennio — scrive Rifkin — la civiltà umana si trova precariamente in bilico tra due mondi diversi: uno utopico e pieno di promesse, l'altro distopico e denso di pericoli. Ciò che è in discussione è il concetto stesso di lavoro. Come si sta preparando l'umanità a un futuro nel quale il lavoro, in senso formale, viene trasferito completamente dagli esseri umani alle mac­chine? Le nostre istituzioni politiche, i rapporti sociali e le relazioni economiche si fondano sulla vendita della risorsa lavoro in un mercato aperto; ora che il valore di quel lavoro è sempre meno rilevante come risorsa per la produzione e la distribuzione di beni e servizi, devono essere messe in atto nuove modalità per la distribuzione della ricchezza e il conferimento del potere d'acquisto. Nel periodo di transizione verso il nuovo ordine centinaia di milioni di lavoratori messi fuori gioco dalla riorganizzazione dell'economia, nel suo complesso, dovranno essere guidati ed assistiti; la loro condizione richiederà un'attenzione immediata e profonda, per evitare un conflitto sociale su vastissima scala".


© AF, settembre 1996

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