martedì 30 marzo 2010

Lavoro minorile in Europa


"E' quando il vostro animo va errando nel vento che, soli ed indifesi, fate torto agli altri e perciò anche a voi stessi. E per quel torto commesso dovrete battere e, inascoltati, attendere per l'eternità alla porta dei beati". (Kahlil Gibran, Il Profeta).
La storia dell'umanità ci consegna una costante e triste realtà: i bambini che lavorano sono sempre i bambini più poveri.
Lo stesso  sviluppo economico non è stato in grado di eliminare nel tempo il lavoro minorile, come dimostra la presenza del fenomeno anche nelle società industriali avanzate: è vero però che ne ha trasformato le forme e ne ha parzialmente modificato le motivazioni.
Nelle società industriali avanzate, come del resto anche in quelle del Sud del mondo, esiste un ampio panorama di motivazioni di ordine economico, culturale, educativo e soggettivo, in grado di condurre a un inserimento precoce in ambito lavorativo e così connesse tra loro da rendere difficile definire con chiarezza quale causa intervenga prioritariamente.

Da recenti ricerche emerge chiaramente come anche in Europa i minori lavorino in modo significativo e come non siano sparite alcune situazioni di grave sfruttamento. I minori che in Europa lavorano per necessità economica appartengono generalmente a quella fascia di popolazione che vive al di sotto della soglia di povertà. Le famiglie di origine sono spesso famiglie monogenitoriali o multiproblematiche (solitamente ben conosciute dai servizi sociali), oppure famiglie migranti o appartenenti a minoranze etniche. Fra tutti i minori che lavorano, questi sono generalmente considerati i bambini e gli adolescenti più vulnerabili.

Parlare di lavoro minorile in Italia non è semplice perché, oltre a essere un fenomeno di difficile quantificazione, è anche di difficile definizione.
Il contesto non è quello dei Paesi del Sud del mondo, ma quello di una nazione industriale avanzata, con una demografia a scarsità di nuove generazioni, con una diffusione consolidata della scolarizzazione di base obbligatoria e con una legislazione che impedisce che i minori di 15 anni lavorino e tutela quelli di età superiore.
È un fenomeno che riguarda Nord e Sud, anche se con specificità territoriali, e non è più collegabile esclusivamente a necessità economiche e alla povertà, anche se permangono forme di lavoro minorile motivate dalla necessità di incrementare un reddito familiare precario.
Il lavoro minorile è collegabile alla dimensione sociale nel suo complesso: alla scuola, alla famiglia, al mercato del lavoro, alle carenze di risorse, alle nuove sfide della complessità, alla crescita e al bisogno di formazione, alla “cultura” del lavoro, al territorio e al proprio ambiente di vita.

Del resto non si può dire che il lavoro minorile abbia un unico volto ed è fondamentale approfondirne le varie espressioni che assume. Vi sono diversi settori di attività, diversi impieghi all’interno dello stesso settore, diversi tempi di svolgimento, differenze di genere, ecc..
Concettualmente nel “contenitore” lavoro minorile si è soliti mettere un po’ di tutto, ovvero unire situazioni radicalmente differenti che vanno dalla prostituzione infantile ad attività criminali penalmente perseguibili, da condizioni che annientano totalmente la personalità e la dignità del bambino/a coinvolto a quelle che non sono assolutamente lesive dei percorsi di crescita. Per non rischiare di trattare fenomeni diversi in modo uguale, sarebbe necessario fare chiarezza e dare ad ogni dimensione il proprio nome.

Sull’inserimento precoce possono inoltre incidere anche motivazioni educative, formative e culturali, soggettive.
La presenza del lavoro minorile può essere, infatti, il segnale di una strategia familiare volta a fornire ai ragazzi un’esperienza e un inserimento professionale non garantiti oggi dalla formazione scolastica o dal possesso di un titolo di studio oppure può essere un tentativo di saggiare tempestivamente le offerte del mercato.
Ancora, la variabile educativa emerge in caso di insuccesso scolastico. I genitori utilizzano il lavoro come strumento formativo, di crescita e di acquisizione di responsabilità quando i figli non vogliono andare a scuola o ci vanno con molta fatica.

I ragazzini stessi possono voler andare a lavorare e il lavoro precoce può configurarsi come scelta in parte autonoma, fonte di gratificazione personale e generatrice di parziale indipendenza.
Il lavoro può procurare soddisfazioni che non si riescono a ottenere in altri campi, soprattutto in seguito alla sperimentazione di percorsi di emarginazione in altre realtà di socializzazione. Il lavoro può, infatti, avere anche un significato simbolico positivo nella percezione di sé e ciò si evidenzia maggiormente quando è associato a risultati scolastici scarsi.

L’attività lavorativa dei minori conduce inevitabilmente a riflettere anche sui sistemi scolastici. Se è vero che la maggioranza dei minori che lavorano frequenta l’istituzione scolastica, allora la scuola ha un ruolo importantissimo: innanzitutto come strumento di ascolto, quale ambito privilegiato in cui i ragazzi e le ragazze possono parlare del loro lavoro, degli eventi critici come anche delle positività. Negare il problema del lavoro minorile o relegarlo all’extrascuola non fa che creare nuove forme di marginalità poiché lascia i ragazzi e le ragazze a rileggere da soli la propria esperienza.
E poi come strumento di informazione e formazione ai diritti in ambito lavorativo, e come strumento di prevenzione.

Interviste a testimoni privilegiati  sembrano far emergere tre fattori capaci di influire maggiormente sul lavoro minorile: la scuola, in ragione della sua capacità di trattenere il minore all’interno del sistema formativo; la famiglia, per l’influenza che le condizioni economiche e culturali hanno sul destino lavorativo del minore e il territorio, per le opportunità d’impiego che offre.
Il lavoro minorile
Non solo la povertà economica delle famiglie, ma anche cause di ordine economico più inedite come la necessità di ridurre i costi nelle imprese familiari o moltiplicare i redditi familiari, per ammortizzare l’incerto destino lavorativo dei genitori, oppure semplicemente per tenere dietro ai ritmi di consumo indotti dal mercato, inducono i minori al lavoro. Vi sono inoltre pesanti condizionamenti culturali come la scarsa percezione del valore sociale del sistema scolastico e formativo su cui incidono fortemente le caratteristiche socio-culturali della famiglia di provenienza.

Ma il lavoro minorile è anche il frutto della disoccupazione, del lavoro precario degli adulti, di forme di degrado culturale e sociale che mettono in moto drammatici meccanismi di esclusione e di povertà.
Prendendo come riferimento i principali indicatori sulla povertà, l’esclusione sociale e l’insuccesso scolastico, il quadro è infatti indirettamente confermato.
Riguardo alla povertà ed all'esclusione sociale l’Italia è al secondo posto in Europa per la più alta percentuale di minori che vive sotto la soglia di povertà: il 17% di minori in Italia è povero; al Sud la percentuale arriva al 29.1%. Nel panorama generale della povertà, la fascia di età fino ai 18 anni è la più povera insieme a quella che comprende chi ha più di 65 anni
Nella fascia 13-14 anni si registra una dispersione scolastica nell’ultimo anno pari a più del 70%, per i minori coinvolti in forme di lavoro irregolare.
In Italia, su 1.000 iscritti alla scuola media 85 abbandonano senza aver conseguito la licenza (73 nel Mezzogiorno). Di questi, solo il 30% circa proseguirà in apprendistato o corsi di formazione professionale. 5 ragazzi su 100 al Nord, 4 al Centro, 7 al Sud, 10 nelle Isole abbandonano la scuola secondaria superiore nel primo anno. Il 19,4% degli iscritti al primo anno della scuola secondaria superiore nel Mezzogiorno abbandona definitivamente il sistema scolastico (dati Svimez marzo 2004).

Si stima infatti in almeno 144 mila il numero dei minori (fra i 7 e i 14 anni e di questi 44.000 in maniera continuativa) coinvolti in forme di lavoro minorile di cui circa 31.500 in forme di “vero e proprio sfruttamento” (escludendo da tali calcoli i minori immigrati e i rom). Numeri che confermano come il fenomeno assuma una grande rilevanza quantitativa e qualitativa, essendo presente in tutta l’area geografica del paese: nelle aree più arretrate come elemento di una povertà economica e nelle aree più ricche come elemento di una povertà culturale.

Al di là delle strumentalizzazioni dei dati e delle cifre operate e dei diversi momenti scelti per denunciare e/o minimizzare il fenomeno dalle diverse istituzioni governative o politiche, è da considerare che l’Inail, solo nel 2002, ha riconosciuto indennizzi a più di 22 mila minori, a seguito di infortunio grave e quindi denunciato.

Questi dati allarmanti collocano la povertà dei minori tra i problemi cruciali del nostro paese, perché, in assenza di mirate politiche di inclusione sociale che abbiano al centro la formazione scolastica e professionale, i minori poveri oggi sono destinati a rimanere poveri per tutto il corso della loro difficile vita.

Per combattere seriamente il lavoro minorile o i lavori minorili, occorre concentrare tutti gli sforzi delle istituzioni locali e nazionali su una molteplicità di strumenti che punti, a partire dalla dimensione territoriale e anche tramite una collaborazione con i diversi soggetti impegnati sul tema (sindacati, imprese, associazioni di volontariato), a ridurre le condizioni di degrado sociale, economico e culturale che sono alla base dello sfruttamento dei minori, potenziando le reti di protezioni e qualificando i modelli di sviluppo locale.


I minori stranieri
Ad oggi manca anche una qualsivoglia stima sul fenomeno dei minori immigrati coinvolti nel nostro paese in forme di lavoro nero. I minori stranieri presenti in Italia sono stimati in circa 330.000, di questi circa 16.000 sono minori non accompagnati e, per stessa ammissione del Comitato minori stranieri, è da ritenere che tale dato sia assolutamente difettoso perché non contenente l’area della clandestinità, “più consistente (almeno 30-35.000 minori)”.
Molti di questi minori stranieri – non occorre mai dimenticarlo – arrivano nel nostro paese con il consenso dei genitori che, pur consapevoli dei rischi di questo progetto migratorio, considerano tale clandestinità l’unica via di salvezza e di prospettiva futura per i propri figli, destinati altrimenti a morire di fame o di malattie, o a condurre un’esistenza ancora più precaria.

Il lavoro dei minori stranieri – spesso non accompagnati – è legato al fenomeno del traffico internazionale di esseri umani. Non si tratta, pero, solamente di quello che in inglese chiamiamo “smuggling”: il traffico nasconde anche delle forme gravi di sfruttamento che le persone adulte migranti sono pronte ad ignorare.
Se nel caso dell’immigrazione clandestina si parla di emarginazione, di mancanza di diritti fondamentali, di soggetti a rischio, quando i protagonisti sono i minori possiamo parlare  di una tripla vulnerabilità, data dall’età, dalla mancanza di tutela da parte di un adulto e dall’identità negata in quanto clandestini. Lo sfruttamento tramite il lavoro minorile rappresenta la marginalità della marginalità, un fenomeno in continua crescita nonostante il fatto che i servizi sociali e alcuni partiti politici italiani  non lo considerano più un aspetto di nicchia dell’immigrazione, nonostante gli accordi bilaterali tra vari paesi europei, nonostante l’attivazione in 14 paesi di un “patto di stabilità” e buone pratiche per combattere il traffico e le forme gravi di lavoro minorile.
Come per i percorsi del traffico di esseri umani in generale, per quanto riguarda il traffico di minori per sfruttamento tramite il lavoro siamo di fronte ad un fenomeno globale di una impressionante mobilità – sia per quanto riguarda le destinazioni, le modalità di lavoro, l’età, sia per quello che concerne i paesi di provenienza dei soggetti. Dieci anni fa l’Italia ha dovuto affrontare la sfida di una presenza considerevole di minori albanesi, non accompagnati, in cerca di un sogno occidentale che da vicino non sembrava più così facilmente raggiungibile. Il Marocco era un altro paese da dove provenivano tanti minori (soprattutto adolescenti), che arrivavano in Italia in cerca di un lavoro  e che erano poi facilmente ingannati dalle reti della criminalità organizzata. Oggi il fenomeno sta cambiando: sono i minori rumeni la presenza più numerosa – ma questa realtà era comunque prevedibile se si guarda ai famosi bambini di strada in Romania, che sono tuttora un problema non risolto, e all’apertura dei confini dal 2003, che ha comportato un maggior favoreggiamento del traffico di esseri umani, in assenza di leggi e di un controllo adeguato delle frontiere. Gli stessi motivi che determinavano la migrazione interna dei “bambini di strada” – la povertà, le famiglie separate, la violenza domestica, la vita in orfanotrofio, la mancanza di prospettive, di educazione e di modelli – sono le cause dell’immigrazione all’estero, sia che il minore porti con sè un progetto migratorio (anche se poi dietro ad ognuno di loro si trova la figura di un adulto che non è il genitore o il tutore, ma lo sfruttatore) sia che diventi una vittima del traffico senza avere l’iniziativa di lasciare il proprio paese. Nella ricerca di risposte si dovrebbero conoscere meglio e considerare il contesto culturale da cui questi ragazzi provengono e i ruoli che la loro società attribuisce all’adolescente – tanti minori prima di 18 anni sono considerati già maturi e quindi responsabili della famiglia bisognosa oppure tante ragazze diventano madri prima di essere maggiorenni. In Romania, per esempio, la carta d’identità si riceve a 14 anni ed è il primo passo di un “rito di passaggio” verso la maturità.
Un aspetto su cui si discute tanto è quello del guadagno ottenuto da questi minori tramite il “lavoro”: lavavetri, elemosina, furti, carico/scarico di merci, prostituzione ecc. Si presume che i soldi vengono mandati a casa per la famiglia, ma in realtà in pochi casi questo avviene, dato che il minore spesso non ha un’educazione  al “risparmio”. Ed è soprattutto questa possibilità di possedere in tempo breve dei contanti il miraggio che spiega il fallimento nel 90% dei casi delle strutture di accoglienza: pronte ad offrire delle alternative e dei percorsi validi verso la legalità e non guadagni ingenti e facili. Del resto è don Luigi Ciotti a ricordarci, amaramente, che “la mafia è una buona mamma”: purtroppo ogni tipo di mafia lo è.


© AF, dicembre 2005

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